Quattrocentotrentatré versi, da leggere uno dopo l’altro seguendo il ritmo e la musicalità, una preghiera quasi, un’invocazione, una storia.
Versi di una voce universale che spoglia la realtà e la manifesta nella sua terribile disumanità.
Nel nome della madre di Aimara Garlaschelli, Giulio Einaudi Editore, è un poema che narra le vicende moderne, tragiche, e non dimentica il passato, il mito.
“Ogni morte viene a dirti:/ <<non torneranno mai>>./ Per questo non hai più parole/ (la bocca è una reliquia)/ in te non c’è più nulla che sia tuo/ per te, passano e sprofondano/ i nomi, i giorni e una farfalla./ Nelle vene solo silenzio/ e vento di neve; sul volto/ l’ombra di occhi scolpiti,/ sulla veste di marmo i tuoi/ palmi, abbandonati aperti/ in un corpo a corpo con i muri/ nello spazio intimo del mondo … Ogni donna è madre/ e ogni morte ci solca il viso/ come bestiame affogato/ nel silenzio del pianto;/ ci spinge in fratte di cielo/ troppo esposte al dolore/ e quanti figli ci sono per mare”.
Ci sono richiami e rimandi in questa opera a La terra desolata di Eliot, che la poetessa ha tradotto, ci sono echi di Pascoli, Caproni, Joyce, Dante, Rilke.
“Portate queste parole come perle/ fatene collane o diademi:/ una ferita che sanguina/ è rimedio al male./ Bava. Bava. E poi lacrime…/ Bava. Bava. E poi lacrime…/ Non rallentare il passo, solo/ quanto basta, per non sembrare parte/ della generale indifferenza./ Bava. Bava. E poi lacrime…/ Non accompagnatevi a chi dice:/ - <<corri amore corri>>/ e poi ti spezza le gambe”.
Un poema che è un canto, un grido, è natura, è l’impietosa umanità, da leggere d’un fiato seguendo le pause, il ritmo della metrica, e ritrovarsi dietro una finestra che vorremmo fosse aperta.