Sulle grandi arterie gli uomini sciamavano come formiche, in cerca di lavoro, in cerca di cibo. E la rabbia cominciò a fermentare.
A ottant’anni da quelle parole, quella storia di grappoli d’ira e di furore è ancora viva, tutta da raccontare. Il fotografo John Trotter ha trascorso gli ultimi vent’anni immortalando il corso del fiume Colorado, dagli Stati Uniti al Messico per mostrare a tutti i disastri e gli scempi dell’opera umana. Che sfrutta, depreda, che non mette limiti alla sua ingordigia, ma prende prende prende senza dar nulla in cambio.
Nelle sue foto Trotter racconta in bianco e nero la follia dell’uomo che ha deciso di modificare il flusso e il percorso di un fiume lungo 2.250 km, stabilendo a tavolino dove e quanta acqua dovesse portare.
“Abbiamo perso il ricordo dell’acqua com’era prima e siamo arrivati a credere che l’espansione in cui vivevamo fosse perpetua, che avremmo piegato per sempre la Natura alla nostra volontà attraverso la tecnologia” è la denuncia di Trotter che con la sua mostra No Agua, no Vida (visitabile al Phest, il festival internazionale di fotografia e arte di Monopoli) dà una immagine a quelle parole “E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili maturano i frutti del furore e s'avvicina l'epoca della vendemmia”
Un ammasso di pini ormai morti nel Parco Nazionale delle Montagne Rocciose, a ridosso delle sorgenti del fiume Colorado testimonia gli effetti di una siccità prolungata che ha distrutto oltre 18mila ettari di foreste conifere.
Un ragazzino messicano aspetta l’arrivo del padre pescatore e nel frattempo pesca granchi, in quello che non è più un corso d’acqua, ma una miscela di salmastro di acqua di mare e di deflusso di irrigazione.
Ci sono i marines armati a vigilare che i cucapas non peschino la corvina, principale fonte di sostentamento, nell’Alta riserva della Biosfera del Golfo della California.
“Quando le mani in cui si accumula la ricchezza sono troppo poche, finiscono per perderla” scriveva profeticamente Steinbeck parlando di quella stessa terra fotografata da Trotter.
Come la lunga e desolata strada nel nulla, vicino a Las Vegas, l’asfalto nero corre sino a perdersi, la beffa di una pista ciclabile e un sistema di irrigazione, nel deserto, in quella che sarà l’ennesima speculazione edilizia sorta nel nulla, in quella stessa città che attinge il 90 per cento della sua acqua dal fiume Colorado tramite il lago Mead.
Un pozzo asciutto entrato nel suo 19esimo anno di siccità.
Contraddittorio e schizofrenico l’atteggiamento dell’uomo che da un lato cerca accordi per far rimanere in vita quel lago, dall’altro continua a vomitare palazzi e conglomerati che attingeranno all’acqua di un fiume che si sta prosciugando.
A pochi chilometri da lì, a Phoenix, abitano oltre 4,5 milioni di persone che per vivere hanno bisogno di quell’acqua che non c’è più.
“E’ inevitabile che pagheremo un prezzo elevato per tale arroganza, anche se per ora il grado di sacrificio è ancora in quale modo negoziabile. Gli stili di vita tradizionali e l’invasione di quelli moderni dovranno essere rivalutati di fronte alla catastrofe in arrivo” è il grido di allarme di Trotter che continua a fotografare i pescatori messicani, i contadini e i loro frutteti strozzati da milioni di case e cemento.
Ci sono 40 milioni di persone che dipendono dall’acqua di un fiume ormai in agonia, un fiume che attraversa un Paese che è stato arrogante e poco lungimirante nelle sue scelte di cui le sue foto raccontano la storia triste e vera e carica di ira e rabbia.
O come ha scritto Trotter “Sto fotografando la terra, le persone, la loro civiltà sull’orlo del collasso.”