Se la grandezza è ciò che ispira un uomo e la ricerca avviene attraverso la bellezza, il risultato non può che essere divino.
Paul Dirac è uno di quegli uomini che si è avvicinato al divino attraverso la scienza. La fisica nel suo caso, che poi è matematica all’ennesima potenza. “Una teoria che includa la bellezza matematica ha più probabilità di essere giusta e corretta rispetto ad una teoria sgradevole, pur confermata dai dati sperimentali” disse una volta il Nobel per la fisica che formulò la famosa equazione dell’amore: (∂ + m) ψ = 0. “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema”.
E non importa se formalmente l’equazione sia sbagliata. Resta la magia di due che diventano uno. Resta la grandezza di un 25enne, studente del St John’s college di Cambridge che tentò di spiegare il groviglio quantistico, il quantum entanglement, riunendo in una sola formula la meccanica quantistica per spiegare il comportamento dell’infinitamente piccolo e la teoria della relatività di Einstein per descrivere il comportamento degli oggetti che si muovono velocemente. Una grandezza tale che lo stesso Einstein lo definì “un uomo in equilibrio tra il genio e la pazzia”.
E Dirac era sempre lì in bilico tra l’infinitamente bello e la ricerca di esso. Cercava e trovava qualcosa che era ancora lì da venire, come l’antimateria. “Le mie equazioni sono più intelligenti di me” pare abbia detto. Non riusciva a stare al passo con quei guizzi d’infinita bellezza che lo coglievano mentre tutti erano lì a guardare. Come Wolfgang Pauli, anche lui Nobel per la Fisica che estasiato da tanta grandezza disse “Dio non esiste, ma Dirac è il suo profeta”.