Assolta e accolta grazie a un fascetto di trenta poesie. Patrizia Cavalli diventa una poeta quando a incoronarla è Elsa Morante.
Dopo anni di pranzi in piazza Navona le chiede “ma insomma tu, che fai?” e alla risposta scrivo poesie le chiese di fargliele leggere “non perché mi interessino dal punto di vista letterario, voglio solo vedere come sei fatta”.
La allora giovanissima Patrizia Cavalli aveva per Elsa Morante una adorazione sconfinata aveva “il genere di sguardo che avrei voluto si posasse su di me”.
Rinasce in quell’esatto momento. Lei che non aveva l’anima ma solo sensi e parole, come ripeteva sempre inizia a scrivere versi, non troppi, per pigrizia.
Il titolo di quel primo libro lo scelse Elsa, prendendolo da un verso di Patrizia, scritto ricordando le parole di Elsa che le ripeteva “sei una poeta, ma non credere che le tue poesie cambieranno il mondo”, voleva che i piedi fossero sempre ben piantati per terra.
Patrizia Cavalli, studentessa di Filosofia aveva già “una superbia di me”, uno sguardo ironico, beffardo, altero ed eppure così essenziale. “Cosa non devo fare/ per togliermi di torno/ la mia nemica mente:/ ostilità perenne/ alla felice colpa di esser quel che sono,/ il mio felice niente”.
Era nata così, studentessa spendeva il suo stipendio in pochi giorni comprando violette candite. La poesia non era ancora nei versi ma nel suo respiro, nello sguardo che aveva sul mondo. “A me è maggio che mi rovina/ e anche settembre, queste due sentinelle/ dell'estate: promessa e nostalgia”.
Nulla conta, neanche i soldi che a volte arrivano copiosi, altre scarseggiano. Di notte va a giocare a poker con i pittori di san Lorenzo, vince, perde, dilapida tutto sin quando arriva l’alba giocando e fumando.
Distrattamente ama anche “Così arrivi, come sempre,/ a spargere il sospetto del paradiso,/ e prima ancora di aprire la finestra/ ti riconosco dalla luce più lenta/ dai pulviscoli sospesi e senza direzione/, dalla replica ossessiva degli uccelli, e se non fossero gli uccelli sarebbe un’altra cosa,/ per ogni pasto hai le tue specialità;/ e quando entri e ti lascio i miei sensi,/ riabito case sconosciute e ho nostalgia/ di cose mai avvenute. E attraverso i tuoi labirinti/ sospingi addosso a me e i continenti e le stagioni/ e io divento la parete degli urti e dei rimbalzi/ l’appoggio dove cominciano le fughe/ fino al risucchio silenzioso dell’estate”.
L’occhio sarà sempre disincantato e colmo d’incanto al tempo stesso, spazza via il superfluo e quell’essenziale che rimane sono versi di vita.
“Ringrazio la sedia la scala la poltrona/che mi accoglieva in improvviso debolezza/quando improvvisa entrava nella stanza/del tuo corpo assoluto la certezza”.