Un panda abbandonato dalla madre impara a rompere le canne di bambù dal suo papà umano.
Ne memorizza anche le smorfie di fatica, lui che di fatica non ne fa e le ripete. Impariamo da ciò che vediamo, da ciò che sentiamo, da ciò che ascoltiamo e dalle parole che leggiamo. Le parole sono importanti, diceva Moretti e con quelle parole costruiamo il mondo che vorremmo e impariamo a comprenderlo.
“Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali... E poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione” disse Goliarda Sapienza, che viveva di impeti e ci ha trasmesso il primo insegnamento. Gli intrecci umani, le relazioni che tessiamo quotidianamente sono in pane quotidiano di Alda Merini che come un monito ci ricorda “Le persone capitano per caso nella nostra vita, ma non a caso. Spesso ci riempiono la vita di insegnamenti. A volte ci fanno volare in alto, altre ci schiantano a terra insegnandoci il dolore… donandoci tutto, portandosi via il tutto, lasciandoci niente…”.
L’altro e poi noi stessi, con cui abbiamo difficoltà a volte ad abitare, lo diceva Elsa Morante “E allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda, con se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi - con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono - si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla l’ultimo Altro, anzi l’unico e vero Se stesso, il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome Dio. Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d'amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all’indecenza”.
Tra noi e gli altri, scriveva Fabrizia Ramondino, la città i suoi umori sommessi“Dietro il silenzio, sono in agguato il mormorio e il rumore, cioè la protesta, come dietro il troppo rumore è in agguato il silenzio, cioè la paura e la rimozione. Mentre la riflessione sulla propria condizione umana e sul modo giusto di superarne i limiti sono negati. Ora, oltre questo stordente rumore dei Quartieri, vedo manifestarsi inconsapevole e sordo dolore”.