“Con una sensazione di stanchezza e di sporcizia... nella nebbia mattutina di Pietroburgo Alekséj Aleksàndrovic andava in carrozza
lungo la prospettiva Névskij deserta, e guardava avanti senza pensare a quello che lo aspettava”.
La strada principale di San Pietroburgo fu immortalata da Tolstoj in Anna Karenina, su quella strada che nel mezzo incrocia la banca Wawelberg costruita immaginando di replicare il Palazzo Ducale di Venezia si interseca con la Malaja Morskaja, strada di poeti, di pittori e di compositori. La strada in cui visse Dostoevskij, e in cui scrisse Il Sosia e Le notti bianche, di quell’attimo di beatitudine, dove “Esistono a Pietroburgo, Nasten'ka, alcuni strani cantucci, anche se voi non li conoscete. In quei luoghi sembra che non giunga quel sole che rifulge per tutti gli abitanti di Pietroburgo, ma un altro sole, come ordinato appositamente per quei cantucci, e risplende di una luce diversa, particolare. In quei cantucci, cara Nasten'ka, sembra svolgersi una vita diversa, non somigliante affatto a quella che ribolle intorno a noi, una vita come potrebbe svolgersi nel trentesimo regno di fiaba e non da noi, nella nostra epoca così seria e così dura. Ecco, questa vita è un miscuglio di elementi puramente fantastici, ardentemente ideali e, ahimé, Nasten'ka, di elementi banalmente prosaici e abitudinari, per non dire inverosimilmente volgari”. Non ci visse molto in quella casa tanto amata, quando in quella stessa strada arrivò Cajkovskij, Dostoevskij era in esilio in Siberia per la sua adesione al socialismo utopico e al Circolo Petrasevskij. Erano anime affini il cui spirito si intrecciò, umili, semplici al limite della incapacità di credere nel loro immenso talento. In Malaja Morskaia Cajkovskij compose Dama di picche, il suo grande capolavoro. Ne scrisse al fratello, ma restava incerto. Alla prima il 7 dicembre 1890 scappò via dal teatro, lasciò sul palco i musicisti e il direttore d’orchestra, lasciò il pubblico, scappò via dalle sale del teatro Mariinskij, fuggì vagando per ore per le strade di San Pietroburgo, cercava casa senza trovarla, incrociò due giovani che canticchiavano la sua opera, estasiati da tanta bellezza. Solo allora il suo animo si acquietò e tornò a casa.
Visse Gogol che grazie alla particolare luce che entrava dalle finestre scrisse Memorie di un pazzo, lui che svogliatamente insegnava storia all’Università di San Pietroburgo a un giovanissimo Turgenev, che anche lui in seguitò scelse Malaja Morskaja come casa, si commiatò con “ignorato sono salito sulla cattedra e ignorato ne discendo”. Ci visse Rachmaninov e anche Sostakovic che ogni sera alle 10 prendeva la sua valigia e aspettava sul pianerottolo di casa che la polizia andasse ad arrestarlo. Voleva evitare quell’immagine ai figli e ogni sera per anni aspettò che lo portassero in esilio. Sentì ogni sera il rumore della Volga della polizia, che ogni sera gli ricordava quanto fosse piccolo e impotente. Quanto quel clima di terrore e angoscia che albeggiava sulla città non dovesse mai sopirsi negli animi dei suoi abitanti. In quello stato d’animo compose la sua Settima Sinfonia, durante l’assedio dei nazisti a San Pietroburgo. Le prime note le scrisse sotto il bombardamento della città. Fu impossibile suonarla in Russia in quegli anni, fu contrabbandata. Il microfilm fu portato prima a Teheran, poi al Cairo e poi negli Stati Uniti dove il 19 luglio 1942 Arturo Toscanini la diresse e fu ascoltata alla radio da venti milioni di americani.
Dopo di lui altri direttori d’orchestra la diressero per 61 volte in un anno. Tutti volevano dirigere, suonare e ascoltare quell’inno alla pace, denuncia ai crimini della guerra.
Tornano come un eco i versi di Achmatova “Ero allora col mio popolo, Là dove il mio popolo, per sventura, era”.