Viviamo in un mondo sommerso dall’ipercultura che priva tutto di vincoli, freni e limiti. Ogni cosa è iperconnessa.
Contenuti completamente differenti tra loro vengono accostati, uniti e fusi senza alcun criterio.
Viene sempre meno il concetto di altro. C’è un’unica visione, un solo io. Byung-Chul Han torna con un nuovo saggio edito da Nottetempo Iperculturalità. Cultura e globalizzazione, tradotto da Simone Aglan Buttazzi.
“Ogni cosa è profondamente legata e intrecciata alle altre…né il corpo né il pensiero seguono un modello lineare…la struttura delle idee non è mai sequenziale, né lo sono i nostri processi mentali. La struttura del pensiero è sistema intrecciato di idee”. Anche il tempo di oggi manca di una temporalità, viviamo nel caos di un tempo a cui “manca un orizzonte di senso onnicomprensivo, viene deteologizzato e deteleologizzato in un universo di bit, di atomi, un universo mosaico in cui le possibilità, in assenza di un orizzonte mitico o storico, ronzano come puntini o piovigginano come chicchi in forma di sensazioni discrete”.
Il filosofo coreano cita Heidegger e il suo ponte capace di creare rive con le sue connessioni e i suoi approdi, sembra indicare la via. Ma una domanda continua a tornare sondando intorno: siamo tuttavia ridotti ad essere turisti in camicia hawaiana? Han teme di si e sempre richiamando Heidegger che ritiene l’ipercultura la fine della cultura e andando a ritroso nel tempo incolpa i media di aver fatto perdere il luogo d’origine alle cose e ai pensieri, catapultando l’essere umano in una serie di rappresentazioni di un mondo che non è più un mondo.
Per nulla alternate da risposte, le domande si susseguono, “bisognerebbe forse piangere la perdita dell’aura, del luogo, dell’origine, di questo auratico qui e ora? O mediante tale perdita si annuncia un nuovo qui e ora senz’aura dotato di un proprio splendore, di un esser qui iperculturale che collima con l’essere ovunque?”.