Superare con i versi gli intimi turbamenti, per esporsi nudo al giudizio degli uomini. Arthur Rimbaud nella sua vita non fa che cercare parole.
Legarle le une alle altre sul filo di una fantasia che vince la realtà.“Muoio, mi decompongo nella mediocrità, nella meschinità, nel grigiore. Che vuole, mi incaponisco tremendamente a voler adorare la libertà libera” scrisse al suo insegnante di retorica Georges Izambard il 2 novembre 1870 il sedicenne Arthur Rimbaud. Già immerso nel suo voler essere un viandante libero che cercava altro, altro rispetto alla vita mediocre di chi lo circondava.
Voleva amare, viaggiare, cercare la libertà che solo tra le righe dei libri aveva assaporato. “Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente: lei non ci capirà niente, e io quasi non saprei spiegarle. Si tratta di arrivare all'ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna esser forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è affatto colpa mia. È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire mi si pensa. - Scusi il gioco di parole. IO è un altro. Tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino, e Sprezzo agli incoscienti, che argomentano su ciò che ignorano del tutto! Lei non è Insegnante per me. Voglio offrirle questo: è satira, come direbbe lei? È poesia? È fantasia, sempre. — Ma, la supplico, non sottolinei né con la matita, né troppo col pensiero” scrisse un anno dopo sempre al suo maestro.
Un profeta, un vate, un illuminato dalla sfera di cristallo spogliato dalle umane costrizioni e volto all’ignoto “Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all'ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all'ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l'intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste! Crepi pure nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti su cui l'altro si è accasciato!” scrisse nella sua lettera più celebre, la lettera del veggente, indirizzata al poeta Paul Demeny il 15 maggio 1871.
Irrequieto, un moto ondoso senza sosta lui che “Cerco parole calme: ma la mia scienza in quest'arte non è molto profonda”.
Nessuna quiete albergava nel suo cuore, solo tumulti e incandescenza, come quella verso l’amico Paul Verlaine, amore di una intera vita “Ritorna, ritorna, amico mio, caro amico, unico amico, ritorna. Ti giuro che sarò buono. Se sono stato sgarbato con te, è stato uno scherzo in cui mi ero incaponito; me ne pento più di quanto se ne possa dire. Ritorna, tutto sarà dimenticato. Che disgrazia che tu abbia dato peso a quello scherzo. Sono due giorni che non smetto di piangere. Torna. Sii coraggioso, caro amico. Niente è perduto. Basta solo che tu rifaccia il viaggio. Noi torneremo a vivere qui coraggiosamente, pazientemente. Ah! te ne supplico. È per il tuo bene, del resto. Ritorna…” gli scrive con il cuore in gola, nella lettera inviatagli da Londra il 4 luglio del 1873. Timoroso di non riuscire a placare l’ira di Verlaine dopo una lite, lo supplica e fa l’unica cosa che in grado sinceramente di fare, gli scrive dei versi “Sì, ero io che avevo torto. Oh! non mi dimenticherai, no? No, non puoi dimenticarmi. Io ti ho qui, sempre. Di’, rispondi al tuo amico, non dobbiamo più vivere insieme? Sii coraggioso. Rispondimi in fretta. Non posso restare qui più a lungo. Ascolta il tuo buon cuore, nient’altro. Presto, dimmi se ti devo raggiungere. Tuo per tutta la vita”.