“Lucia! Lucia! Lucia! Dove sei?”. Non qui, non nella tua stanza illuminata giorno e notte con un neon che non dà tregua
né nel corridoio che sembra una piazza in una domenica di festa, caotica e ciarliera. Lucia è a casa e tu sei qui immobilizzato in un letto che la aspetti, la cerchi, con la tua voce baritonale che non fa dormire nessuno. E se non invochi lei, è Massimo che chiami. Ma il Covid vi tiene lontani, tua moglie e tuo figlio possono vederti solo per pochi minuti al giorno, anche se possono andare allo stadio per pagare quel biglietto che fa dormire tranquilli gli amministratori delle grandi società calcistiche. Nessuno si cura delle tue urla, ti fa eco solo lei, quella novantenne con una voce acuta come la Callas, capace di infrangere il vetro e a ogni “Lucia” risponde con parole senza senso, comprensibili solo a lei. Qualcuno di tanto in tanto ti risponde da un’altra stanza. Qualcuno che cerca di dormire nel luogo meno probabile al mondo in cui riposare, un ospedale. Di tanto in tanto c’è chi riesce a strapparti un sorriso, nessuno come noi sa farlo, ridere nella disgrazia. “Lucia! Lucia!”, urli dal fondo del corridoio, dall’altro capo ti rispondono “È a casa! Sta cucinando”. Maria piccola come uno scricciolo con le sue ossa rotte grida e grida e grida sino a sentirsi male, vuole scappare da un luogo che non ha senso, che non ha umanità, che non ha cura, se non nelle due ore di un intervento. E le ore si susseguono come se non avessero un peso, come se non fossero importanti. Tutto scorre, anche il dolore che nessuno sente sulla propria pelle. “Ti devi rassegnare” dice l’infermiera alla paziente che non dà pace al suo cuore per tutto quell’urlare, per tutta quella solitudine, per tutte quelle richieste di aiuto inascoltate. Lei che si vanta di aver studiato al Sant’Orsola e disegna lo sdegno sul suo viso, davanti agli odori e agli umori dei suoi pazienti. Neanche la tregua del sonno è sacra, le urla per turni e ferie stravolgono il giorno e la notte. In questa babele si annida una gomorra. Cerchiamo un giusto, almeno uno per salvarci. Arriva la speranza di una umanità che resiste, si chiama Giuseppe, infermiere in pensione, che ogni giorno indossa la sua divisa dismessa, prende il treno e raggiunge l’ospedale per stare tutto il giorno con la sua amata moglie. “Oggi è il suo compleanno” dice sorridendo mentre distribuisce a tutti i pazienti biscotti di mandorle, dolci a levare via l’amaro di questo luogo. Qualcuno intona “buon compleanno” la gioia è nei cuori non nei luoghi, attenti a non farla spegnerla a non farla spazzare via da questo obbrobrio. Nella stanza ad angolo, quella con le finestre grandi che donano luce c’è il trio Lescano. Più di due secoli in tre, soavi cantano per farsi allegria. La gioia, non perdete mai la gioia. E la speranza di un domani migliore è nella amorevole carezza di quella infermiera minuta, con la voce come un soffio che resiste alle brutture e ancora sa cos’è l’amore. Una carezza che dà un senso a giornate intere che si consumano lente in un letto troppo scomodo per dormire, su una sedia troppo dura per riposare. Distogli lo sguardo dall’inedia, dalla noncuranza, dalla disumanità. Guardi gli occhi di chi ami che ancora oggi ti insegna a combattere. Resisti e non farti spegnere. La luce è in un sorriso, in una carezza, nei dettagli. Nell’amore che nonostante tutto resiste.