Sette ore e undici minuti, è il tempo che Gertrude Ederle impiegò per attraversare il canale della Manica.
Erano le prime ore del giorno, in un agosto caldo ma non troppo. Si calò in acqua ricordandosi dell’anno prima, quando fu squalificata perché per un attimo si riposò a pelo d’acqua con la faccia in giù. Fu presa da un collega su indicazione del suo allenatore e questo le costò la gara. Pensò un anno a quell’attimo, al suo sogno svanito nel nulla e così quando il 6 agosto 1926 si calò nelle acque di Cap Gris-Nez, in Francia non si fermò un attimo, con quella sua nuotata otto e uno, da polmoni forti.
Gertrude Ederle non fu solo la prima donna ad attraversare la Manica a nuoto, stabilì anche il record mondiale universale abbassando di oltre due ore il precedente stabilito da Enrique Tiraboschi, un argentino di origini italiane.
Nuotò sino a Kingsdown, in Inghilterra, 14 ore e 34 minuti, bracciata dopo bracciata, per essere la prima, l’unica. La “regina delle onde” compì l’impossibile rispondendo a quanti sostenevano che nessuna donna poteva attraversare la Manica a nuoto.
“Per me il mare è come una persona, come un bambino che conosco da molto tempo. Sembra pazzesco, lo so, ma quando faccio il bagno in mare, io gli parlo. Non mi sento mai sola quando sono là fuori”. Nuotava, nuotava senza sosta. Sempre. Come se l’acqua fosse il suo elemento naturale.
Era una ventenne dai capelli corti, il classico caschetto anni Venti, le spalle forti e l’innata propensione a sfidare i suoi limiti, infrangendo tabù e paure. Nell’estate del 1924 vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi nella staffetta 4x100 e due di bronzo nei 100 e nei 400 stile libero. Ha stabilito nella sua carriera otto record mondiali. Nel 1925 attraversò la baia di New York - preludio per il suo sogno, quel punto in cui il mare del Nord incontra l’Atlantico - 34 chilometri in 7 ore e 11 minuti, stabilendo il nuovo primato assoluto (maschile e femminile).
Nella mente forse le parole di Shakespeare nel suo Riccardo III, “Questa preziosa gemma posta nel mare d’argento, che funge da muraglia o da fossato che difenda una casa, contro l'invidia di terre meno felici”.
E lei quella gemma voleva toccarla da parte a parte. Fare quello che tutti dicevano che non avrebbe potuto fare, compreso il suo primo allenatore.
Nuotò seguita da due rimorchiatori, il primo con amici e parenti, nel secondo a bordo, uno stuolo di giornalisti.
Non si fermò un attimo, neanche quando le onde si ingrossarono pericolosamente. L’allenatore urlò verso di lei “ritirati” e lei serafica tirò fuori la testa dall’acqua e disse “perché?”.
Nuotò sino a toccare terra. Arrivò sulla spiaggia e un ufficiale dell’immigrazione britannica vedendo “un’adolescente dagli occhi annebbiati e fradicia d’acqua” la scambiò per una clandestina e le chiese il passaporto. Fu il suo benvenuto nella gloria. La notizia della sua impresa solcò l’oceano ad una velocità tale che non appena tornata a casa, nella sua Manhattan due milioni di persone sfilarono per lei alla “parata dei nastri”.
“Non ho lamentale, sono a mio agio e soddisfatta. Non sono il tipo di persona che raggiunge la luna finché ha le stelle” disse una volta.
Ma non c’era firmamento abbastanza grande per lei.
Cadde per le scale e impiegò anni a ristabilirsi. Ci riuscì, come suo solito, tenendo l’asticella sempre alta. Dopo quel brutto incidente partecipò all’Esposizione Universale di New York del 1939. Il morbillo la rese completamente sorda, e lei in risposta decise di insegnare a nuotare ai non udenti. Sempre un po’ più in alto quell’asticella da raggiungere.
La vetta, per chiunque altro, sarebbe stata il cielo, ma lei, per tutta la vita si crucciò di non aver vinto tre ori alle Olimpiadi. Quell’asta non era ancora abbastanza in alto per lei.