La caffettiera sbuffa sul fuoco. E quell’aroma forte e intenso mi riporta indietro di anni.
A prima dell’avvento delle merendine nelle bustine di plastica, quelle che avevano tutte lo stesso sapore di zucchero e di tutto ciò che finisce in anti: coloranti, conservanti, dolcificanti, quelle che ho mangiato a tonnellate nascosta nello stanzino per non essere rimproverata. Io, persuasa come tanti da regalini e un marketing accattivante.
Prima del pane con la marmellata, mi tornano alla mente quei racconti tramandati di madre in figlia. Quando, eravamo tutti molto poveri ma molto felici. Che sembra impossibile sfuggire da questo assioma.
Oggi che poveri non lo siamo più, nel vero senso della parola, ma di certo non siamo felici, come lo erano loro.
E mi ricordo per interposta persona di quando si mangiavano le carrube, salvezza di una nazione povera sino allo stremo, a causa di una guerra che non voleva finire. Di quando per mantenere viva la magia, le mamme si inventano dolci che di dolce avevano ben poco, per premiare i loro bambini che avevano la speranza negli occhi, tanta che ne bastava anche per loro che in quei tempi non riuscivano a vederla.
S’inventarono il pane raffermo con caffè e zucchero.
E io in quell’epoca non ero neanche nata.
Io che sono cresciuta con quel mulino che gira come immagine rassicurante su mille oggetti casalinghi, di quel pane raffermo conoscevo solo la storia. Di quei bambini nati nel secondo dopo guerra, che immaginavano torte e pasticcini in quel pane raffermo che li faceva sentire anche un po’ grandi, per via di quel caffè, in realtà allungato con l’acqua, proibito in tazzina, lecito sul pane e bramato con quella spolverata di zucchero che lo rendeva prezioso. E così dopo tanti racconti, abbandonai le crostatine e i tegolini e delle camille non ero mai stata amica, tanto di gomme da collezione ne avevo una scatola piena. Mi incaponii su quel ricordo che feci mio, raccogliendo il testimone che giunse sino a me.
A me che non bevevo neanche l’acqua con le bollicine, figurarsi il caffè, scuro, amaro, intenso. Troppo per una bambina che adorava la panna e le patatine fritte. Ma poi nella fretta di una madre con cinque figli, quel rito mi sembrava infinito. Il caffè che pervade l’aria quando senti sbuffare la caffettiera, il travaso nel bicchiere e poi l’acqua per renderlo più morbido al mio palato e lo zucchero che cadeva come polline, ancora una spolverata, ancora una di quei mille granelli come diamanti su quel pane ancora fumante. E mi sentivo grande e piccola insieme. Potevo bere il caffè e mi sentivo forte come chi, un tempo, non aveva i dolci e se ne inventava di nuovi con quello che c’era. Io che portavo i nastri di seta tra i capelli, mangiavo quel pane come se fosse una torta appena sfornata. E mi ripromettevo un giorno di assaggiare anche le carrube, seppure bitorzolute e contorte, seppur scure (io che amavo i colori vividi e luminosi come l’arcobaleno), seppur relegate a mangime per cavalli. Per essere ancora più forte e resiliente. E per vedere quel sorriso sul volto di mia madre, per una bambina che disegnava fiori ovunque e testardamente voleva indossare i panni, anche se per pochi minuti, di chi aveva combattuto, di chi aveva resistito, di chi non si era fatto spegnere dalla brutture, ma aveva conservato la bellezza e l’incanto.