Sei mai stato sulle dune sabbiose a raccogliere piccoli giunchi buoni a cavare minchiareddhi?
Oggi è vietato mi rispondi con aria distratta come se oltre la fascia di terra rossa non ci fosse un mare da esplorare. E pensare che proprio questa terra sarà seminata a grano cappello, che lo vedrai crescere verde nel mese di maggio per poi dorare a giugno prima della mietitura, nessuna falce, nessun covone, nessuna spiga da raccogliere da contadini ancor più poveri dopo il carico verso l’aia a pesare. E il mulino in pietra a separare farina da ‘puccia’ e cibo per pappe di gallina. Niente di tutto questo, non più. La farina ti giunge impaccata fin dentro il supermercato sotto casa.
Non è la stessa cosa ti direi. Aveva un altro odore la farina di un tempo. Quella dell’impasto con l’acqua fresca della cisterna. La mattra banca segnata dal tempo e dal coltello. Ricordi il rito? Preparare minchiareddhi per il pranzo della domenica, e il sugo di carne.
Mi chiedi se sono capace. Sì è la risposta, perché ciò che si impara non si dimentica, mai. Mai.
Unisco la farina, una manciata di puccia e l’acqua dove il cloro sostituisce le anguille. Impasto e poi lavoro il tutto, il panetto è pronto, una croce anche se sei ateo che è un atto che ti porti dietro, non fede nella fede ma tradizione.
Ed ora viene il meglio, piccoli cordoncini da tagliare in pezzi lunghi un centimetro e da passare rapidamente con il palmo della mano nel giunco. Cavarlo via, ecco il minchiareddho pronto. Uno dopo l’altro finché il panetto non sarà finito. Allora il tavolo sarà pieno, e trascorreranno la notte a seccare tra legno e aria e odore di mare. Nell’olio un filo di cipolla a dorare e poi i pomodorini. Cuoceranno con la carne per ore a fuoco lento. Tutta una mattina e un ciuffo di basilico per finire. E all’ora di pranzo eccoli i minchiareddhi incontrare prima l’acqua in ebollizione per poi finire nel piatto con il sugo e la carne. Una spolverata di formaggio. Ed è domenica, anni fa.