Lui ha saputo andare lontano, più lontano delle indicazioni, oltre la direzione indicata, oltre le visioni altrui. Non fermarsi, oltre.
Fugge, continuamente, non resta fermo ed imprigionato, nella vita come nell’arte. Paul Gauguin “resta colui che ha volontariamente fuggito tutte le schiavitù e spezzato tutti i vincoli che imprigionano l’uomo moderno” scrive D’Angelis. Nato a Parigi nel 1848, vive l’infanzia in Perù, per poi rientrare in Francia a sette anni. Non è una vita semplice quella dell’artista francese che prima si dedica ai viaggi con la marina mercantile e poi opera in Borsa. La pittura è solo un passatempo che ben presto diventerà una passione sotto la guida di Pissarro. Una passione che trascinerà Gauguin a perdere tutto ed ad inseguire una idea di libertà, anche artistica. Una libertà che rincorre ma che non conquisterà.
Il pittore “è il selvaggio che odia una civiltà opprimente, qualche cosa di simile a un titano che, geloso del suo creatore, a tempo perso compie la sua piccola creazione, il bambino che smonta i giocattoli per costruirne altri, che preferisce vedere il cielo rosso piuttosto che blu come la folla”, dirà Strindberg. Gauguin non è tra la folla è osservatore solitario, propone nuove visioni del mondo suggerite dai luoghi che raggiunge, Tahiti e la Polinesia. Sensualità.
Per Huyghe “Gauguin ha compreso che tutto ciò che parla ai sensi – linea, colore, immagine – parla nello stesso tempo all’anima e riveste per l’anima un significato misterioso che sfugge alla ragione e oltrepassa la logica”.
“L’opera di un uomo è la spiegazione dell’uomo stesso”, scrive Gauguin in una lettera a Charles Morice. E nelle sue opere c’è l’uomo, lui, in continua ricerca, nei colori e nelle forme sulla tela, nella povertà e nell’armonia. C’è l’anima. Tra vita e morte. E su tutto sovrasta inalterabile la natura.