Amedeo Modigliani nasce bellissimo e il seme del suo estro artistico cresce in lui senza sosta.
A 14 anni si ammala di febbre tifoidea e a 16 di tubercolosi, gli segneranno per sempre corpo e mente instillando in lui il gusto per l’oblio, il lasciarsi andare, farsi portare dalle onde ovunque la corrente vorrà, che segnerà tutta la sua vita.
Trascorre lunghi periodi in casa, dove dipinge tutto e tutti. Il suo talento è chiaro, ma le condizioni economiche della famiglia non gli permettono di frequentare una scuola di disegno. Sin quando riesce ad ottenere dalla madre la promessa di poter andare a lavorare nello studio di Guglielmo Michele, allievo di Giovanni Fattori che sarà, insieme a tutto il gruppo dei Macchiaioli, la prima influenza artistica di Modigliani. Studia a Firenze, poi a Venezia, infine a Parigi. Dove ci arriva dopo un estenuante viaggio di 26 ore in treno. Con gli occhi grandi e neri come i suoi capelli ribelli, viene soprannominato “il cigno livornese” e ama, ricambiato, moltissime donne.
Il primo gallerista che si interessò a lui fu Paul Guillaume, che di Modigliani scrisse “Una lunga sciarpa lo segue come una scia. Si siede davanti a uno sconosciuto, allontana tazza e piattino con le lunghe mani nervose, tira fuori di tasca un taccuino e una matita e incomincia a disegnare un ritratto senza nemmeno chiedere il permesso. Firma. Stacca il foglio e lo tende orgogliosamente al suo modello. Così beve, così mangia”.
Il tutto alla modica cifra di 5 franchi. Tra i tavoli de La Rotonde e del Dome rideva e parlava con tutti, mangiava pochissimo, in compenso annegava nell’assenzio. Si presentava dicendo: “Modigliani, ebreo. Non cubista, non futurista, modiglianista”.
Dipingeva soprattutto donne, spesso nude e loro ripetevano che posare per lui era come “farsi spogliare l’anima”.
Visse a Montmartre nella comune per artisti Le bateau-lavoir, poi a Montparnasse, all’Alveare, circondato dai suoi amici artisti: Brancusi, Picasso, Cézanne.
Il 3 dicembre del 1917 si inaugura la sua prima e unica mostra personale alla galleria Berthe Weill, ma quei nudi generano scandalo, sono tacciati di oscenità e la mostra viene chiusa dopo poche ore dalla polizia. Vano fu il tentativo della gallerista di invocare clemenza in nome dell’arte, citando secoli di nudi artistici, il solerte capo della polizia le rispose indignato “ma questi nudi hanno i peli!”.
Ma Modigliani, detto Modì in un gioco di assonanze sonore con maudit (maledetto) continuava imperterrito a dipingere. Era velocissimo, gli bastavano una o due sedute e per far asciugare prima i colori li diluiva con l’olio di lino. Nella sua tavolozza c’erano pochi e precisi colori: il bianco di piombo, il giallo cromo, l’ocra gialla, il rosso vermiglio, la terra verde e il blu di Prussia.
L’urgenza di portare a compimento la sua opera era indifferibile. “Se deforma tutto, preso dal desiderio di conseguire la grazia, se sacrifica per creare e se nulla lo interessa tranne la scelta del colore dopo il ritmo” disse di lui lo scrittore Francis Carco.
Nel 1917 alla Accademie Colarossi conosce Utrillo, che diventerà suo amico fraterno e Jeanne Hébuterne, l’amore della sua vita.
Anni prima scrisse “La felicità è un angelo dal volto serio”, e la trovò in quell’angelo che dipinse senza sosta per tutta la sua breve vita.
I colli lunghi oltre il possibile, le linee pure ed eleganti e quegli occhi che quasi mai si svelavano. Tutte le sue modelle messe a nudo nei suoi quadri gli chiedevano la medesima cosa “e gli occhi?”, lui rispose a Jeanne “dipingerò i tuoi occhi quando conoscerò la tua anima”.
Ebbero una figlia, Giovanna, ma erano troppo poveri per crescerla, fu affidata ad una balia. Non c’era spazio per altro, solo l’arte e il loro reciproco amore. Per lui la giovanissima Jeanne troncò i rapporti con la famiglia che osteggiava quell’amore con un italiano, più grande di lei, povero e per giunta ebreo. Ma lei amava solo lui. Respirava solo la sua aria.
Lui la amava, la tradiva, tornava da lei. “Nelle sue opere rivela e cela, toglie e accresce, seduce e acquieta. Questo eclettico, profondamente ispirato aristocratico, socialista e sensuale insieme, utilizza le tecniche artigianali della Costa d’Avorio e lo stile delle icone bizantine, dall’arte gotica e pluribus, crea un Modigliani palpitante” disse di lui Anna Achmatova, forse uno dei suoi tanti amori.
Vive distruggendosi, giorno dopo giorno. Il fisico indebolito dalla malattia, la povertà, le droghe, l’alcool. Nel 1919 ritrae la baronessa Thora Klinckowstorm, prima di consegnarle il quadro, sul retro scrive “La vita è un dono dei pochi ai molti, di quelli che sanno e hanno a quelli che non sanno e non hanno”. Ridotto allo stremo dalla malattia e dalla povertà, si nutriva ormai solo di sardine in scatola. Sin quando ebbe un attacco di febbre tifoidea. Mentre lo portavano via in barella disse “ho baciato mia moglie, ci siamo intesi per una felicità eterna”.
Morirà il 24 gennaio del 1920 all’ospedale La Charité di Parigi. Moïse Kisling fece una colletta tra gli amici artisti per pagare i 1.340 franchi del funerale. Un lungo corteo lo accompagnò sino al cimitero di Pére Lachaise. C’era tutta Parigi. I galleristi dietro la salma già cercavano di accaparrarsi le opere di quel “genio maledetto”. Jeanne non riuscì a contenere tutto quel dolore, il giorno dopo si gettò dal quinto piano della casa dei genitori. Aspettava il loro secondo figlio.