Cammina sulle mattonelle di ceramica che ricordano i pavimenti della sua infanzia, motivi geometrici e i colori della sua città.
Il blu del mare e il giallo del sole. Alza lo sguardo e con incontenibile spirito da infante dipinge ogni superficie, i muri, i corridoi, i cunicoli, un piano non basta, le pennellate si susseguono su due piani. Senza soluzione di continuità Francesco Clemente inneggia alla sua Napoli nel monumentale affresco che ha realizzato per il museo Madre.
L’assenza di colore per tendere alla eterna umana ricerca di contenere l’infinito misurando le profondità dell’ignoto, Anish Kapoor, in Dark Brother realizza un incavo utilizzando i i pigmenti della tradizione decorativa indiana della serie Mille Nomi che mostra ad occhi miscredenti la mancanza di una fine.
Prende una capuzzella del cimitero delle Fontanelle di Napoli e la riproduce in ghisa, la moltiplica privandola della sua unicità umana. Un gioco di specchi porta il visitatore all’interno dell’opera di Rebecca Horn che in Spirits, mostra l’altra faccia dell’eternità, quella che non viene interrotta neanche dalla morte, ma si unisce ad essa fluendo senza sosta.
Se l’arte è un’emozione che non deve indulgere in un punto di vista, necessariamente spiegato e altrimenti incomprensibile, l’enorme ancora arrugginita scelta da Jannis Kounellis rimanda al porto, al Monte e al passato di una città votata al mare.
L’ingresso è un colpo d’occhio che porta il visitatore nel Paese delle Meraviglie, esattamente come la Alice di Carroll, non ci sono liquidi da bere, ma passi da compiere per attraversare l’opera di Daniel Buren, Lavoro in situ, con l’impatto cromatico dei muri gialli e arancioni, l’esplosione del concetto di luogo attraverso i grandi specchi, la perdita della prospettiva guardando il pavimento geometricamente predisposto per confondere, per divergere.
Uscire per strada, salutare il Palazzo della regina Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II d’Angiò e guardare in alto, al cielo prima di andar via e scoprire uno dei cavalli di Mimmo Palladino, blocchi che ricordano l’opus quadratum degli antichi romani, il tufo delle vie cave etrusche, di catacombe e ipogei d’epoca greco-romana, delle città scavate nella roccia in Giordania come in Maremma, a Roma come a Napoli e poi quella frase, che più di tutte riassume la città partenopea Il mare non bagna Napoli, titolo del libro di Anna Maria Ortese, riprodotta a caratteri cubitali da Giovanna Bianco e Pino Valente, nel luogo in cui è l’arte a contenere e a non essere contenuta, un monito a non cadere.