A tutti i perché che si avvicendano nel cuore e nella mente di chi visita Napoli, Anna Maria Ortese ha dato una risposta.
Senza filtri, con la lucidità di chi l’ha amata tanto. Pubblicato da Einaudi la prima volta nel 1953, Il mare non bagna Napoli, ora edito da Adelphi, è, come l’ha definito Pietro Citati, “una straordinaria discesa agli inferi: nel regno della tenebra e delle ombre”.
“La città si copriva di rumori, a un tratto, per non riflettere più, come un infelice si ubriaca. Ma non era lieto, non era limpido, non era buono quel rumore fitto di chiacchierii, di richiami, di risate o solo di suoni meccanici; latente e orribile vi si avvertiva il silenzio, l’irrigidirsi della memoria, l’andirivieni impazzito della speranza. Non sarebbe durato molto, e difatti a poco poco si spense” scrive Ortese mettendo nero su bianco quella ineffabile sensazione che cresce respirando Napoli.
É la Napoli di Compagnone, “Questa è la mia città senza grazia. Qui gli uomini vivono dannati in una feroce tristezza. Conservano negli occhi cieli opachi di caserme ed ospedali e una cenere rossa di macerie. Qui le donne crollano a braccia aperte, temono la luna e il sangue che fa appassire i fiori dodici volte all’anno…”. Tutta quella bellezza senza alcuna grazia.
E nonostante ciò è la città che ti incanta con quella luce che si irradia proprio dalle tenebre, quando manca un attimo a condannarla per l’eternità, si gonfia di speranza, di umanità, di una gioia che altrove è perduta.
Il libro tanto criticato quando fu pubblicato per la sua analisi lucida e feroce della povertà, per quella implicita conclusione che segna l’impossibilità di una comune salvezza, per i suoi intellettuali che hanno gettato via quell’afflato che li ha resi grandi, rassegnandosi a camminare tra i vicoli indossando un soprabito che li allontana da quel cuore pulsante. Tutto scorre anche in una città non bagnata dal mare. Perché la Napoli raccontata da Ortese non è quella dei baroni, dei principi e dei conti.
Fianco al fianco si trascinano per strada gli ultimi e quelli che avrebbero dovuto essere i primi, quelli “illusi da un che di straordinario che credettero sentire o vedere, come un’aria d’Olimpo” che hanno smesso di credere, di combattere, dichiarandosi vinti prima del tempo. E vivono guardando con occhi chiusi alla ferita sanguinante della città.
“Camminandogli accanto, sapevo che la sua indifferenza era controllo. Tutti erano indifferenti, qui, quelli che desideravano salvarsi. Commuoversi, era come addormentarsi sulla neve. Avvertita dal suo istinto più sottile, la borghesia non smetteva di sorridere, e urtata continuamente dalla plebe, dai suoi dolori sanguinosi, dalla sua follia, resisteva pazientemente, come un muro leccato dal mare”. Forse era l’unico modo di salvarsi, non cercando di salvare lei.
Parlando del suo libro Ortese scrisse “E così obbedii, scegliendo tra misura e visione, e preferendo la visione, anche io. E questo fu Il mare non bagna Napoli”.
La visione del suo scritto trascende Napoli nella quinta parte Il silenzio della ragione, trattato universale di come dovrebbe essere ciò che non è. “L’indipendenza della cultura proclamata indispensabile, il diritto della cultura a sorvegliare lo Stato, qualsiasi Stato, a contenerlo invece che esserne contenuta…”.
Tutto è perso anche il monito di contenere il tutto. Eppure Napoli in qualche modo resiste e nell’oscurità splende, senza grazia sì, ma splende. Non c’è una sola riga di questa luce che irradia tutto ne Il mare non bagna Napoli. Eppure, eppure di questa Napoli senza speranza resta proprio questo, la speranza che Ortese non trova e lo scrive affinché oggi come domani, quella grazia venga recuperata. Magistrale.