“Mi trovo dove non sono, come un’ombra che mi dà invisibilità, che mi permette di vedermi dove sono assente”.
Le parole di Foucault illuminano Il Dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni di Paolo Pecere edito da Nottetempo. È in quel perdersi e poi ritrovarsi il segreto nascosto nelle danze e nei rituali che in tutto il mondo ancora sopravvivono, dalle tarantate salentine al theyyam indiano, il rituale di possessione con cui gli oppressi, i dalit, appartenenti alle caste inferiori, con la danza diventano dei. Il viaggio tra possessioni, liberazioni, divinità, danze di lotta e balli di passione tocca i cinque continenti tracciando punti comuni che poi Pecere unisce dando vita ad un unico grande disegno. La “taranta" rivive nel sufismo dove “il mondo sarebbe fatto della stessa sostanza del creatore, che la espande e la ritrae come fa un ragno sulla tela”. Vola in Kashmir da Shiva, dio della danza, “la coscienza universale (Shiva) si anima e si sviluppa nell’esperienza individuale del molteplice, come un corpo che danza. Questo movimento invisibile, questa fluttuazione dell’essere, avviene in noi come uno spettacolo: il sé interiore è la scena. I sensi sono lo spettatore”. Attraversa l’oceano e arriva in Etiopia dove ancora oggi sopravvivono gli zâr, i “geni” che possiedono le donne colpite da malesseri e malanni, stimolati da musiche che danno il via alla rotazione del collo prima e dalle oscillazioni del corpo poi. Il dio che danza, ad ogni latitudine, in un vortice di musica, canto e ballo che “come insegna il maestro sufi Inayat Khan, sono tre aspetti di una stessa vibrazione, che ha un valore cosmico: separarli è un artificio”.