Cantami o diva l’arte che è in me. Se non verrai sarò io a cercarti, invocando quell’anelito di eterno che attraverso te vivrà in me.
Per farlo darò tutta me stessa, pregherò, invocherò la luna, cambierò città, compirò mille piccoli rituali, sin quando sentirò la tua voce cantare.
Ernest Hemingway scriveva in piedi, su un mobiletto adattato a scrivania che gli arrivava all’altezza del petto. Indossava mocassini più grandi per star più comodo e si imponeva di scrivere un tot di parole ogni giorno. Ma smetteva quando sapeva come sarebbe andata a finire la storia.
L’ispirazione non era poi questo gran problema, Hemingway era i suoi libri, la sua maggior fonte di ispirazione era la sua vita.
La coreografa Pina Bausch amava fare domande che le servivano “ad approcciarsi a un argomento con cura” diceva lei “Si tratta di un metodo di lavoro molto aperto, ma al tempo stesso molto preciso. Che mi conduce in luoghi a cui da sola non avrei pensato…devo trovare nuove immagini. E non ho parole per dirlo. Ma quando lo trovo, me ne rendo conto immediatamente”.
Era una stacanovista, viveva per la danza. Trascorreva dodici ore in sala prove e quando tornava a casa passava due o tre ore a immaginare le sue coreografie. Poche ore di sonno e riprendeva tutto dall’inizio, le immagini, le domande, in un flusso ininterrotto.
Vladimir Nabokov scriveva i suoi libri su singoli bigliettini. Ogni scena un biglietto che conservava in scatole per poi ricomporli scegliendo la giusta sequenza per la trama.
Zora Neale Hurston aveva un rapporto viscerale con l’ispirazione che paragonava alle rane pescatrici che quando “vengono inghiottite da un pesce più grande ne divorano le pareti dello stomaco sino a uscirne. Così è la vocazione alla scrittura. Devi dedicartici completamente, sennò ti divora dall’interno per poi sparire”.
Ma quando il canto delle muse si placava? Odiava anche solo vedere un foglio di carta “Non riesco nemmeno a toccarla. Non riesco a scrivere, a leggere, a fare niente…Qualcosa mi prende e mi trattiene, rendendomi muta, infelice e impotente; mi seno come se fossi stata abbandonata su qualche pianeta, finché questa sensazione non mi lascia andare. Ma penso che questo sia il preludio allo sforzo creativo”
“Odio scrivere, ma amo aver scritto” disse Dorothy Parker. Incredibile a dirsi. Il ritmo incalzante delle sue parole simile ad una musica bop era immaginato e suonato da una persona che detestava scrivere, sempre. I suoi direttori ed editori erano abituati ad aspettare per ore, giorni interi l’arrivo dei suoi articoli. Non le piaceva, non si divertiva, non credeva di essere investita da nessun talento divino. Era solo brava a farlo.
Jack Kerouac amava scrivere di notte e da buon credente non iniziava a scrivere se prima non aveva pregato. L’ispirazione la cercava un po’ ovunque in realtà, in ogni forma di rito o superstizione. Accendeva una candela prima di iniziare, una di quelle “gialle favolose candele romane”
Credeva nell’abbondanza portata dalla luna piena e ripeteva rituali per nove volte, come toccare con le dita dei piedi nove volte il pavimento prima di scrivere.
Alice Walker invece assecondava pazientemente le immagini dietro le sue parole, i personaggi che grazie a lei avrebbero preso forma. Faceva maturare in sé il racconto, anche per anni e in quel lasso di tempo non faceva altro per “sgombrare l’orizzonte fino a lasciare una sola cosa” la storia. Quando scrisse Il colore viola cambiò città per tre volte prima di trovare l’ambiente giusto “Ci mettevamo comodi, ovunque fossi seduta, e parlavamo…erano obbedienti, coinvolgenti, gioviali. Naturalmente stavano vivendo la conclusione della storia, ma a me la raccontarono dal principio”.
E se l’ambiente era ostile alla storia e ai suoi personaggi “si zittivano, smettevano di venire a trovarmi tanto spesso e assumevano un atteggiamento che sembrava voler dire ‘bene aspettiamo e vediamo come va’”.
In attesa della luna, di un foglietto di carta, di una candela o di qualsiasi altra cosa mi possa ispirare.