Se nulla conta cosa resta di noi? Strato dopo strato ci è stato chiesto di togliere ogni nostro sentire.
E ora resta il vuoto a riempire le assenze.
“La guerra ha logorato le parole; le parole si sono indebolite, si sono consumate come gomme d’automobile; al pari di milioni di altre cose, sono state più malmenate, sballottate e svuotate delle loro felici sembianze negli ultimi sei mesi che nelle lunghe epoche precedenti, e ora noi ci troviamo di fronte a uno svilimento di tutti i nostri termini, o, per dirla altrimenti, a una perdita di espressività da eccessivo infiacchimento, tanto che vien da chiedersi quali fantasmi ci rimarranno” scrisse Henry James in un articolo sul New York Times, il 21 marzo 1915. La guerra era fuori e dentro di sé e non riusciva a darsi pace. Non riusciva a trovare un equilibrio tra la salvezza di tutti e la sua personale. Sempre in lotta tra il darsi completamente al mondo, ai sentimenti, all’altro e il custodire un pezzo di sé per non soccombere.
Timidamente consiglia a Grace Norton di non sentire così tanto, lui che non ha mai trovato una misura del suo essere.
“Non sei l’unica, e te lo dico sinceramente, a sentirti così, nel senso che, come mi pare, ti stai facendo carico delle sofferenze dell’intera umanità. Solo, ho la terribile sensazione che tu dia tutto e non riceva niente, che non ci sia reciprocità nel tuo sentire, che tu provi ogni tormento senza ricevere nulla in cambio. Tuttavia, sono determinato a non parlarti se non con la voce dello stoicismo”.
L’ineluttabile condizione di chi dona se stesso, ricevendo in cambio il freddo vuoto dell’assenza. E in quell’impasto dove non è più possibile scindere sin dove arriva il cuore o la mente, mi ricorderò che “la coscienza è una forza illimitata e, anche se a volte ci sembra di non provare altro che dolore, eppure nel propagarsi di onda in onda, nel nostro ininterrotto sentire – anche se a volte ci sembra di non sentire, o di provarci, o di sperarci – c’è qualcosa che ci tiene al nostro posto e ne fa un punto di osservazione che probabilmente non è bene abbandonare”.
“Siamo tutti eco e riverberi di uno stesso essere” chi tra noi lo dimentica per conservare quel pezzo di sé integro manca anch’esso di quell’equilibrio che noi cerchiamo.
“Non riesco a dirti di non affliggerti, di non ribellarti, sia perché la mia immaginazione vive, a mie spese, intensissimamente ogni cosa, sia perché non sono capace di dirti di non sentire. Senti, senti, ti dico - senti con tutta te stessa, foss’anche fin quasi a morirne, perché questo è il solo modo di vivere, specialmente di vivere in questa terribile tensione, e il solo modo di onorare e celebrare gli esseri ammirevoli che sono il nostro orgoglio e la nostra ispirazione” scrisse invece all’amica Clare Sheridan. Lui che sentiva, sempre tanto, troppo. Ma chiedeva agli altri di salvarsi, seppure in punta di piedi, seppure senza dimenticare echi e riverberi.
“Non fonderti troppo con l’universo, ma sii solida, salda e concreta più che puoi. Viviamo tutti insieme, e quanti di noi amano e conoscono vivono più intensamente. Ci aiutiamo l’un l’altro, anche inconsciamente, nei nostri sforzi; mitighiamo gli sforzi altrui, contribuiamo alla riuscita comune, facciamo in modo che gli altri possano vivere”.
Ma il dolore è lì, ineluttabile e non c’è scampo neanche tra le parole di James.
“Il dolore arriva a grandi ondate, nessuno lo sa meglio di te; ma poi ci passa sopra e, anche se rischia di soffocarci, ci lascia in piedi e sappiamo che più esso è forte, più ci rafforza, visto che passa e noi rimaniamo. Ci logora, ci consuma, ma noi lo consumiamo e logoriamo a nostra volta; ed è cieco, mentre noi in qualche modo ci vediamo”.
Invita a cercare lì dove lui stesso non hai mai trovato. E cosa resta allora di tutto quel sentire? di quel dolore tra le mani vuote?
“Non pensare, non sentire oltre le tue capacità, non trarre conclusioni, non decidere… non fare nient’altro: aspetta”.
Aspetto.