Tre ragazzi corrono a perdifiato come bambini, arriva prima quello con il maglione largo e sdrucito e il cappello a quadri.
E’ partito al due, ma non importa. Ha vinto. Quel monello con i baffetti neri in realtà è una lei, è Catherine, dietro di lei, Jules e Jim. Quei fotogrammi in bianco e nero sono la storia del cinema, sono Truffaut tanto quanto sono Roché.
Sono l’essenza di quel bambino famelico di libri, di storie, di vite, di amori che durante l’occupazione tedesca passava il tempo nella libreria di rue Lafitte dove comprò tutti i 450 volumi de Les classiques Fayard dalla A (Aristofane) alla V (Voltaire). Mondi inesplorati che prendevano vita davanti ai suoi occhi.
Quel bambino entrò per la prima volta in un cinema per assistere alla proiezione de Il Paradiso perduto di Abel Gance. Fu un colpo al cuore. Il suo destino era stato scritto in quel momento. Sarebbe diventato un regista. Anzi, il regista della nouvelle vague. François Truffaut.
Truffaut viveva tutti quei mondi, perché non erano il suo.
Lui, nato per sbaglio, da una mamma poco più di una bambina, in una famiglia che avrebbe preferito che lui non fosse mai nato.
Lasciato in un convitto, allontanato dalla mamma subito dopo il parto, cresciuto da una balia, poi dalla nonna. Credette padre un uomo che in realtà non lo era. Fu rinchiuso in riformatorio, si arruolò nell’esercito, voleva morire in Indocina quel ragazzo dal cuore spezzato. Ma quella morte romantica e tragica non arrivò. Disertò, finì in carcere e fu salvato da André Bazin, la cosa più vicina ad un padre che ebbe.
Quegli amori perduti non ritornarono mai. La mamma detestava i rumori, così lui doveva stare fermo, immobile tutto il tempo. L’unica via di fuga erano i libri, ancora una volta e così per tutta la vita.
Quella corsa, l’amore a tre, l’amicizia indissolubile, la passione, la libertà di quella storia raccontata da un uomo di 76 anni nel suo primo libro, furono per lui, passione pura.
Jules e Jim di Henri Pierre Roché, fu il motivo per cui diventò un regista. Voleva dare forma e sostanza a quella incredibile storia d’amore. Lo lesse talmente tante volte che le pagine si consumarono e le parole uscivano dalla sua bocca così come Roché le aveva scritte, una dopo l’altra, senza sbagliarne nemmeno una.
Quell’amore romantico, libero, felice, tormentato, assoluto diventò quasi un’ossessione.
A quei tempi scriveva sui Cahiers du cinema, scrisse preso da un raptus amoroso di quel libro pressoché sconosciuto. Ne scrisse appassionatamente e questa volta furono le parole di Truffaut ad arrivare sulla bocca di Roché.
I due si incontrarono, da quell’incontro nacque un’amicizia e un comune intento, fare di quel libro un film che sarà “un inno alla vita e alla morte, la dichiarazione dell’impossibilità di tutte le combinazioni amorose al di fuori della coppia”, come scrisse lo stesso Truffaut durante le riprese del film.
Jules e Jim era un manifesto all’amore. Ma Catherine (Jeanne Moreau) era troppo libera, troppo emancipata, troppo forte per non far cadere il film nelle maglie della censura. In Francia fu vietato ai minori di 18 anni, in Italia rischiò di non uscire. Solo l’intervento di Roberto Rossellini - di cui Truffaut fu prima assistente e poi amico - e Dino de Laurentiis che garantirono per lui permise al pubblico italiano di vederlo. Come hanno potuto i censori chiudere gli occhi davanti a quei fermo immagine che usava Truffaut per rendere eterna la felicità sui volti dei suoi personaggi?
Hanno scelto di indugiare su quel legame a tre destinato ad autodistruggersi con il suo epilogo tragico e inevitabile.
Truffaut impiegò poco più di due mesi per girarlo. Chiese a Serge Rezvani di comporre una canzone, Le tourbillon de la vie, che è poi la chiave di lettura di tutto il film.
Jeanne è seduta, coda di cavallo e una gonna bianca a ruota, sembra una bambina, non fosse per quei tacchi alti e le gambe accavallate, si muove a ritmo di quella cantilena semplice che racchiude tutto il film “Ci siamo conosciuti, ci siamo riconosciuti. Ci siamo persi di vista e poi ripersi di vista. Ci siamo ritrovati, ci siamo riscaldati. Poi ci siamo separati, ognuno per conto suo nel mulinello della vita”.
Jeanne Moreau/Catherine era il centro di tutto, “era l’unica in grado di recitare un ruolo che richiedeva tanta autorità e umiltà allo stesso tempo” il centro di quell’amore impossibile da definire per Jim ma anche per Jules. Ma lei in quella storia è sempre un passo avanti.
Anche quando con il suo berretto a scacchi, i baffetti neri disegnati, un maglione troppo grande e i pantaloni larghi e spessi a nascondere il suo essere donna, corre in quel gioco infantile, uno, due e lei parte, per riprendersi lo spazio conquistato dal detrimento che poneva la donna un passo dietro l’uomo. Lei vince, Jules e Jim le restano dietro, ma era stato quel secondo a renderli secondi? Non importa. Corrono felici come bambini. Corrono incontro alla vita e all’amore, senza paure.
Jeanne/Catherine inventa l’amore “...ho trovato in un libro che mi avevi prestato un brano segnato da te. C'è una donna su di una nave che si dà col pensiero a un tale che non conosce affatto. Ciò mi ha colpito come una confessione: è così che tu esplori l'universo. Anch'io ho questo genere di curiosità; forse tutti ce l'hanno. Ma io per te so farne a meno, mentre tu non lo sai fare per me. Anch'io penso che in amore la coppia non è affatto l'ideale. Basta guardarsi intorno. Hai voluto costruire qualcosa di più, rifiutando l'ipocrisia e il quieto vivere. Hai voluto inventare l’amore” le dice Jim serio, quasi senza sentimento, lucido e freddo.
La realtà bussa alla porta e non indietreggia. E’ lì, aspetta che quella porta si apra e quando verrà aperta sarà la fine di tutto. Quell’amore diventa un sentimento creato “senza un minimo di umiltà...solo con l'egoismo. No, guardiamo in faccia la realtà: il nostro amore è un fallimento, non ci resta niente. Tu hai voluto plasmarmi su di te. Risultato? Ho dato solo infelicità a chi avrei voluto dare solo gioia”.
Poi alla fine di questo lungo rincorrersi e amarsi e lasciarsi e tentare di dimenticarsi per poi ritrovarsi c’è quel “Jules guardaci bene” e lì io chiudo gli occhi.