Visioni d'insieme

Io rimo per un altro secolo, Amelia Rosselli

Io rimo per un altro secolo, Amelia Rosselli

Spazi, versi, rime, tempi. Amelia Rosselli scandisce così la sua opera, intrecciando sempre versi e musica.

Nel suo scritto Spazi metrici dirà “Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai in realtà scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema…la lingua in cui scrivo di volta in volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica associativa è certamente quella di molti popoli, e riflettibile in molte lingue…La realtà è così pesante che la mano si stanca, e nessuna forma la può contenere. La memoria corre allora alle più fantastiche imprese (spazi versi rime tempi)”.

I suoi versi volano senza mai toccar terra, senza fermarsi, sempre in fuga. Come lei che nella sua vita è stata una rifugiata.

Il padre Carlo e lo zio Nello furono fucilati per ordine di Mussolini e Ciano dalle milizie fasciste in Francia, responsabili di aver fatto scappare Filippo Turati.

La famiglia inizia la sua fuga senza fine: Inghilterra, Canada, Stati Uniti.

“Non sono apolide. Sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito… dal confino a Lipari a cui era stato condannato per aver fatto scappare Turati… mio padre fu poi ucciso con suo fratello… Aver imparato l’inglese, quindi, oltre al francese, è dovuto alla guerra, perché allora andammo in Inghilterra e da lì fuggimmo poi via Canada per gli Stati Uniti…Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo dei cosmopoliti; eravamo dei rifugiati” spiegò lei a chi voleva conferire un allure a quell’essere sempre ovunque, senza sosta, senza poter mettere radici.

Vive ossessionata dal pensiero che i servizi segreti vogliono ucciderla.

In lei alberga l’animo del padre Carlo, antifascista teorico del Socialismo Liberale, del fratello John musicologo e della madre Marion Catherine Cave, attivista del partito laburista britannico.

Studia etnomusicologia e teoria musicale, impara a suonare il violino e il pianoforte, va anche in scena con Carmelo Bene, contemporaneamente scrive su alcune riviste, Pasolini la nota.

Nel mezzo c’è la poesia che ha sempre il sapore di tutto ciò che ha perso, di tutto ciò che ha avuto in se “Perdonatemi perdonatemi perdonatemi/vi amo, vi avrei amato, vi amo/ho per voi l’amore più sorpreso/più sorpreso che si possa immaginare. /Vi amo vi venero e vi riverisco/vi ricerco in tutte le pinete/vi ritrovo in ogni cantuccio/ed è vostra la vita che ho perso. /Perdendola vi ho compreso perdendola/vi ho sorpresi perdendola vi/ritrovo! L’altro lato della pineta/era così buio! solitario! rovinoso!/Essere come voi non è così facile;/sembra ma non lo è sembra/cosa tanto facile essere con voi ma/cosa tanto facile non è./Vi amo vi amo vi amo/sono caduta nella rete del male/ho le mani sporcate d’inchiostro/per amarvi nel male”.

Quando muore la madre non riesce più a sopportare quella instabilità, quel sentirsi sempre franare sotto i piedi il mondo, l’impermanenza, il non appartenere a nessun luogo pur sentendo in sé un desiderio di essere parte di qualcosa, di qualcuno.

Inizia ad avere i primi esaurimenti nervosi, saranno tanti, culmineranno in una diagnosi di schizofrenia paranoide, ma lei non accettò mai la diagnosi, era altro a turbarla a farla soffrire a renderle impossibile vivere.

Mentre la vita scorre con tutti i suoi dolori, lei scrive “Primavera, primavera in abbondanza/i tuoi canali storti, le tue pinete/sognano d’altre avventure, tu non hai/mica la paura che io tengo, dell’inverno/ quando abbrividisce il vento./Strappi rami agli orticoltori, semini/disagi nella mia anima (la quale bella/se ne sta in ginocchio), provi a me/stessa che tutto ciò che ha un fine/non ha fine./Oppure credi di dileguarti, sorniona/nascosta da una nuvola di piogge/carica sino all’inverosimile./Ma il mio pianto, o piuttosto una stanchezza/che non può riportarsi nel rifugio/strapazza le foglie, che ieri/ mi sembravano voglie, tenerezze anche/ed ora sperdono la mia brama./Di vivere avrei bisogno, di decantare/anche queste spiagge, o monti, o rivoletti/ma non so come: hai ucciso il tuo grano/nella mia gola./Assomigli a me: che tra una morte/e l’altra, tiro un sospiro di sollievo/ma non mi turbo; o mi turbo? del tuo/sembrare agonizzante mentre ridi”.

“Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi” dirà in una intervista.

Amava Sylvia Plath, le sue poesie, la metrica, i versi. Per questo scelse l’11 febbraio, giorno in cui la Plath si suicidò per buttarsi giù dalla finestra della sua casa romana, era il 1996, quel mondo non le apparteneva “Io rimo per un altro secolo”.

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