Visioni d'insieme

Ti do me stessa

Ti do me stessa

Una disperazione mortale mise fine alla sua breve e sfolgorante vita.

Figlia di una contessa e di un famoso avvocato, Antonia Pozzi sin da bambina viene avvicinata alle arti.

Curiosa del mondo viaggia, studia le lingue, scrive poesie sin dall’adolescenza, un diario e svariate lettere.

Frequenta il liceo Manzoni, innamorandosi del professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; un amore destinato a svanire in nome della rispettabilità del nome che portava, rinuncia come scriverà lei stessa “alla vita sognata…non secondo il cuore, ma secondo il bene”.

Non rinuncia alla poesia, espressione di una vita sognata libera.

“Anch’io non ho radici/che leghino la mia/vita – alla terra –/anch’io cresco dal fondo/di un lago- colmo/di pianto”.

Di lei l’italianista Maria Corti, disse “il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili”.

Immagina una vita scandita dal battito del suo cuore, le emozioni, solo quelle, nessuna ragione a governarla. “Ti do me stessa,/le mie notti insonni,/i lunghi sorsi/di cielo e stelle – bevuti/sulle montagne,/la brezza dei mari percorsi/verso albe remote”.

È inquieta, non regge il peso del dolore che ognuno ha in dote, immagina mondi che non riesce più a vedere.

“Giuncheto lieve biondo/come un campo di spighe/presso il lago celeste/e le case di un’isola lontana/color di vela/pronte a salpare –/Desiderio di cose leggere/nel cuore che pesa/come pietra/dentro una barca –/Ma giungerà una sera/a queste rive/l’anima liberata:/senza piegare i giunchi/senza muovere l’acqua o l’aria/salperà – con le case/dell’isola lontana,/per un’alta scogliera/di stelle”.

Il 5 novembre del 1938 scrive una lettera a Paolo Traves “Mio caro Pa,
mercoledì giorno dei morti (L’è el dì, di Mort, alegher! – ti ricordi?) con la tua lettera in tasca, ho girato per un’ora, verso sera, nei viali del Cimitero. Avevo un mazzetto di garofani bianchi e ne ho lasciato uno a ciascuno dei miei e dei vostri morti… Tutto quel che mi scrivi è immensamente penoso: mi faccio una quantità di domande alle quali purtroppo non può esserci risposta. E dirti di sperare – anche se te lo dico con tutta la convinzione e la tenerezza del mio cuore fraterno – che ti serve, ora, nei giorni bui? Molto spesso, tutte le volte che penso a te, mi chiedo se ci sarà dato ancora nella vita di camminare una mezz’ora insieme, sotto braccio, con le nostre anime così profondamente diverse eppur così profondamente unite da uno stesso silenzio fatto di accorta tensione, di lento svariare di ricordi sensibili di odori, di colori, di povere parole di poesia strozzate prima d’essere dette… Ti ricordi, Pa caro, Pa vecchio? Io mi ricordavo in un modo così cocente, l’altra sera, sotto gli alberi del Parco, con le foglie umidicce che mi legavano il passo e la nebbia intorno ai fanali, muta, come i fumosi silenzi di un film di Duvivier… Duvivier, ricordi? Io non so – te lo confesso – se avrò ancora il coraggio di affrontare da sola un viso di Jean Gabin. Tutto è così legato al tuo ricordo, così all’unisono con lo sfondo della tua anima…”.

Meno di un mese dopo, il 3 dicembre cammina sul prato dell’abbazia di Chiaravalle, in tasca un lungo biglietto per i suoi genitori, tra le righe quella “disperazione mortale” che la portò a ingerire i barbiturici che la portarono via per sempre. Aveva solo 26 anni, ma nessuna forza per andare avanti. Il padre si preoccupò di evitare lo scandalo, disse che morì di polmonite, manipolò le sue poesie, cancellando per sempre lo spirito di una figlia che aveva voluto troppo. Aveva voluto vivere.

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