Nel 1977 iniziano sette anni in cui si è molto parlato di desiderio in tutte le sue forme, sentimento legato da sottili parentele con la rabbia.
Umberto Eco su quei sette anni scrisse un libro, ora ripubblicato da La nave di Teseo, Sette anni di desiderio, in cui il semiologo, filosofo, scrittore e molte altre cose, si interroga su quasi tutto.
Dal perché sia nata la religione “L'uomo in qualche modo sente di essere infinito, e cioè è capace di volere in modo illimitato, diciamo di volere tutto. Ma si accorge di non essere capa- ce a realizzare ciò che vuole, e allora deve prefigurarsi un Altro (che possieda in misura ottimale ciò che lui desidera di meglio) e a cui si delega il compito di colmare la frattura tra ciò che si vuole e ciò che si può” e del vuoto sociale lasciato dalla loro assenza “sacro ci appare come ‘numen’, come ‘tremendum’, è l'intuizione che ci sia qualcosa non prodotto dall'uomo e verso il quale la creatura sente attrazione e re- pulsione al tempo stesso. Esso produce un senso di terrore, un irresistibile fascino, un sentimento di inferiorità e un desiderio di espiazione e sofferenza. Nelle religioni storiche questo sentimento confuso ha preso la forma, volta a volta, di divinità più o meno terribili. Ma nell'universo laico esso ha assunto da almeno cento anni altre forme. Il tremendo e il fascinoso hanno rinunciato a rivestirsi delle parvenze antropomorfe dell'essere perfettissimo per assumere quelle di un Vuoto rispetto al quale i nostri propositi sono votati allo scacco”.
Di incredibile c’è che nulla è cambiato e che una mente come quella di Eco abbia saputo, già cinquant’anni fa interrogarsi e rispondersi (facendo sempre tutto da solo) su ogni questione ancora oggi dibattuta.
Non esistevano ancora i social, ma a proposito di tv e film dice “…fino a che punto il vissuto venga filtrato (amore, paura o speranza) attraverso immagini ‘già viste’. Lascio ai moralisti di deprecare questo modo di vivere per interposta comunicazione”. E siamo noi oggi, che viviamo per interposta comunicazione senza quasi accorgercene.
Si interroga sulla linguistica, oggi oggetto di polarizzanti e alquanto violente prese di posizione “Quindi bisogna elaborare delle regole per parlare in comune; regole di discorso mentale che siano anche le regole del discorso espresso. Il che non significa affermare che quando parliamo dobbiamo dire sempre e soltanto una cosa, senza ambiguità e polisensi. Anzi, è piuttosto razionale e ragionevole riconoscere che esistono anche discorsi (nel sogno, nella poesia, nell'espressione dei desideri e delle passioni) che vogliono dire più cose a un tempo e contraddittorie tra loro” e ancora “la lingua è potere perché mi obbliga a usare stereotipi già preformati, tra cui le parole stesse, e che è così fatalmente strutturata che, schiavi al suo interno, non riusciamo a farcene liberi al suo esterno, perché nulla è esterno alla lingua”.
Potremmo continuare così su ogni argomento dello scibile umano, Eco parla anche del perché il linguaggio dei puffi sia comprensibile a tutti pur non avendo che una sola parola da declinare all’infinito.
Nulla è troppo banale per non essere analizzato, studiato, pensato. Noi invece che semiologi, filosofi, scrittori e molto altro non lo siamo, diremmo che spacca il capello in due, in ogni singola pagina. Ma è Umberto Eco, cosa ci aspettavamo? Un libro da leggere a piccole dosi, da fare decantare come un buon vino. Dopotutto sono 448 pagine in cui Eco ci spiega tutto.