Visioni d'insieme

Memorie del sottosuolo, Dostoevskij

Memorie del sottosuolo, Dostoevskij

Il monologo iniziale spazza via ogni speranza, ogni barlume di ottimismo,

l’essere umano ha in sé un’insita voglia di sofferenza che non lo porterà mai a tendere verso il bene, a stare bene.

Pubblicato nel 1864, Memorie del sottosuolo è il preludio ai successivi capolavori di Fedor Dostoevskij dove la felicità è un’utopia. Scritto e pubblicato in due distinti momenti, la prima parte nel primo numero del 21 marzo 1864 della rivista diretta da Dostoevskij insieme al fratello, Epocha, la seconda vedrà la luce solo in un momento successivo, oggi edito da Einaudi con la traduzione di Alfredo Polledro e l’introduzione di Leone Ginzburg.

Non lascia scampo a dubbi e speranze “Eppure sono sicuro che l’uomo all’autentica sofferenza, cioè alla distruzione e al caos, non rinuncerà mai. La sofferenza... ma è l'unica causa della coscienza”.

Il sottosuolo è il luogo d’elezione di quest’uomo perso “Ma precisamente in questa fredda, ripugnante mezza disperazione e mezza fiducia, in questo consapevole seppellirsi vivo dal dolore nel sottosuolo per quarant'anni, in questa situazione senza uscita creata forzatamente e tuttavia in certo senso dubbia, in tutto questo veleno di desideri insoddisfatti, rientrati, in tutta questa febbre di esitazioni, di decisioni prese una volta per sempre e di pentimenti che dopo un minuto si ripresentano, è racchiuso appunto il succo di quello strano godimento di cui parlavo”.

Nessuno come Dostoevskij si interroga, si pone domande, fa dell’esistenza un continuo conflitto interiore e ti induce a pensare, riflettere, leggere e rileggere ogni frase, ogni pensiero, ogni esitazione.

Mette il lettore di fronte a ciò che è, potrebbe essere, dovrebbe essere, svela tutto ciò che viene celato e si rimane nudi davanti alle sue parole “Assicurate di non temer nulla, e nello stesso tempo cercate di conquistarvi con le lusinghe il nostro buon giudizio. Assicurate che state digrignando i denti, e nello stesso tempo fate dello spirito per divertirci. Sapete che le vostre arguzie non sono spiritose ma, evidentemente, siete molto contento della loro dignità letteraria. Vi è forse effettivamente accaduto di soffrire, ma non rispettate affatto la vostra sofferenza. In voi c'è anche della verità, ma non avete pudore; per la più meschina vanità mettete in mostra e a ludibrio sul mercato la vostra verità... Avete effettivamente qualcosa da dire, ma per paura nascondete la vostra ultima parola, perché non avete la risolutezza di esprimerla, ma solo una pavida sfacciataggine. Vi vantate d'essere cosciente, ma non fate che titubare, perché, sebbene in voi la mente lavori, il vostro cuore è ottenebrato dalla depravazione, e senza un cuore puro non ci può essere una piena e retta coscienza”.

Si mette sul banco degli imputati, si giudica colpevole e si infligge la punizione. Non ha indulgenza per sé “ho sciupato la mia vita corrompendomi moralmente nel mio angolo, con l'insufficienza dell'ambiente, col disabituarmi a quanto è vivo e col puntiglioso rancore del sottosuolo, giuro non è interessante; in un romanzo ci vuole un eroe, e qui sono stati raccolti apposta tutti gli elementi di un anti-eroe e, più che altro, ciò produrrà un'impressione arcisgradevole, perché tutti noi ci siamo disabituati alla vita, tutti zoppichiamo, chi più chi meno. Ce ne siamo anzi talmente disabituati che sentiamo talvolta un certo disgusto per l'autentica «vita vivente», e perciò non possiamo tollerare che ce la ricordino. Infatti siamo arrivati al punto che l'autentica «vita vivente» la consideriamo poco meno che una fatica, quasi un servizio, e siamo tutti d'accordo dentro di noi che attraverso i libri le cose vanno meglio”.

È doloroso, a tratti ineluttabile, ma ferma la corsa e mette in pausa il mondo che scorre fuori dalle pagine. Tutto si ferma e non resta che pensare, riflettere “Noi non sappiamo nemmeno dove stia ora ciò che è vivo, e che cosa sia, come si chiami. Lasciateci soli, senza libri, e ci confonderemo subito, ci smarriremo: non sapremo dove far capo, a che cosa attenerci; che cosa amare e che cosa odiare, che cosa rispettare e che cosa disprezzare. Noi sentiamo perfino il peso di essere uomini: uomini con un autentico e nostro corpo e sangue; ce ne vergogniamo, lo consideriamo come un disonore e cerchiamo di essere non so che immaginari uomini universali. Siamo dei nati-morti, ed è già un pezzo che non nasciamo più neppure da padri vivi, e questo ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Presto escogiteremo il mezzo di nascere in qualche modo da un'idea. Ma basta; non voglio più scrivere dal «sottosuolo»...”.

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