Scendere, abbandonare l’auto sul ciglio della strada, rinunciare all’aria condizionata, addentrarsi tra gli esili steli dei temibili forasacchi
ingialliti dal sole. Camminare sotto il cielo cocente, il vento che secca la pelle e osservare la solitudine inesplorata delle campagne abbandonate nelle ore in cui il sole è proprio sulla nostra testa, l’ombra schiacciata sotto i piedi. L’orizzonte incerto, una coltre di polvere smossa sembra sabbia nel deserto, come meta irraggiungibile. Eppure vai avanti, tra le sterpaglie, i massi, le lucertole, il cervone strisciante. Cantano le cicale, le formiche corrono come impazzite, le rondini attendono nascoste tra le chiome di un carrubo.
Perché scendere ora e addentrarsi nella campagna? Ora che il caldo è intenso, pericoloso. Un uomo in lontananza raccoglie pomodori, riempie cassette una dopo l’altra, senza sosta. Contrasta il rosso con il giallo dominante, come una ninfea splendente in uno stagno. Addentrarsi ora per scoprire resilienza e resistenza, come adattarsi al caldo anomalo, come non cedere. Misurare una volontà confrontandola con i limiti del proprio corpo, con le variabili dell’imprevedibilità. Il suolo cerca acqua che non arriva dal cielo, le crepe si allungano e allargano, i solchi diventano profondi, spiarvi dentro è come cercare nuove verità. Voltandosi si può ancora vedere l’auto parcheggiata sul ciglio della strada, abbandonata in tutta fretta in un impeto di conoscenza, dinanzi ancora terreno incolto da attraversare, passo dopo passo, un rivolo di sudore dietro la nuca, il sole ancora più cocente ma indietro non si torna, si avanza nel deserto tra gli alberi secchi. Non ci sono miraggi o oasi per ristorarsi, solo tanto lavoro e ricominciare. Senza stancarsi mai. Senza più voltarsi.