Danzava ininterrottamente negli infiniti saloni della sua mente, perdendosi e a sprazzi ritrovandovi per poi lasciarsi andare all’oblio.
Se per un solo attimo avesse scelto di non essere una tremula stella agli occhi del mondo, Zelda Fitzgerald avrebbe danzato accanto a Francis, sarebbe stata luce e non ombra.
“Tesoro mio, non è stata una bella giornata? Mi sono svegliata stamattina e il sole giaceva come un pacco di compleanno sul mio tavolo, così l'ho aperto e tante cose felici sono volate nell'aria: l'amore per Doo-do e la sensazione ricordata delle nostre pelli fresche l'una contro l’altra” scrive nell’autunno del 1930 Zelda Fitzgerald al marito Francis Scott, rivelando quel gusto tipico dei libri di lui nelle parole di lei. L’incanto come religione.
“Penso che mi piaccia respirare i giardini crepuscolari e le falene più delle belle immagini o dei buoni libri. Sembra il più sensuale di tutti i sensi. Qualcosa in me vibra in un odore oscuro e sognante, un odore di lune e ombre morenti”. Tremula stella danzante.
“La luna scivola tra le montagne come una moneta smarrita e i campi sono neri e pungenti e ti voglio vicino per poterti toccare nella quiete autunnale anche un po’ come l’ultimo eco dell’estate…L’orizzonte si estende sulla strada per Losanna e sui campi succulenti come una ghigliottina e la luna sanguina sull’acqua e tu non sei così lontano da non poter sentire l’odore dei tuoi capelli nella brezza secca. Caro, adoro queste notti di velluto”.
Le notti di velluto scritte da Francis in tutti i suoi libri. Insieme erano come “appena usciti dal sole”, disse di loro Dorothy Parker. Belli e dannati. Ma mentre Zelda passava i suoi anni in manicomio, lui per il mondo intero era il grande scrittore americano che per lei stava annegando nei debiti e nell’alcool.
Hemingway che mal sopportava Zelda, descrisse l’amico in maniera così precisa da non lasciare spazio a scuse o opinioni differenti “Il suo talento era naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla. In un primo tempo non lo capì più di quanto non lo capisca la farfalla, ed egli non se ne accorse neppure quando il disegno fu guastato o cancellato”. Francis “guastato” incolpava Zelda e i suoi problemi mentali, le sue continue richieste di soldi. Lei sapeva che lui copiava le sue parole che diventavano sotto il nome di lui libri amati da tutti. Lui beveva, ma per il mondo la causa era lei, sempre lei, che non aveva saputo scegliersi e a lui si aggrappava. “Non sono mai riuscita a decidere se la notte fosse un’acerrima nemica o una ‘grande protettrice’ o se ti amo di più nell’eterna classica penombra che si fonde con il giorno o nel pieno di fanfara religiosa della mezzanotte o forse nella luce di mezzogiorno”. Zelda si annoiava, indugiava, contemplava, mentre fuori dal quel piccolo bozzolo tutto in lei si sgretolava. Tornava sempre a lui, come una trottola che gira su un perno.
“Buona notte Caro. Se tu fossi nel mio letto, potrebbe essere la parte posteriore della tua testa che stavo toccando dove i capelli sono corti e muschiosi o potrebbe essere sulla parte anteriore dove forma delle piccole caverne sopra la tua fronte, ma ovunque fosse sarebbe sii il posto più dolce, il posto più dolce”. Lo amava, desiderava, adorava, invocava, lei innalzata a musa. “L’influenza più immensa su di me l’hanno avuta l’assoluto, raffinato e totale egoismo e la gelidità mentale di Zelda” disse Francis di lei.
Le sue parole rimanevano morbide e luminose, crepuscolari e brillanti “Tesoro, mi manchi così tanto, ti amo così tanto, e la prossima volta che tornerò con te, non sono assolutamente niente senza di te, solo la bambola che avrei dovuto nascere, sei una necessità, un lusso e un caro, prezioso amante, e sarai il marito di tua moglie…”.
Lei morì nell’incendio che divampò nell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverata. Furono sepolti insieme, nel cimitero di Rockville, sulla lapide l’ultima frase del Grande Gatsby “Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato”.