Quando l'oro parla, l'eloquenza è senza forza diceva Erasmo da Rotterdam. Il mito di un colore che da sempre è opulenza.
Da quando i cartaginesi che ne facevano il loro motivo di vanto sino a Mansa Musa, nono imperatore dell'Impero del Mali, primo della dinastia Laye che nel suo lungo pellegrinaggio verso la Mecca nel 1324 per lasciare sul suo cammino una scia di ricchezza e maestosità, viaggiò con una carovana di 60mila uomini, 500 schiavi a piedi, ognuno con un bordone di oro sulle spalle da quasi due chili e nei bagagli altri 136 chili d’oro che lui, generosamente, regalava ai passanti abbaglianti dalla sua luce.
Lo stesso sontuoso splendore che Gustav Klimt inseriva in tutti i suoi quadri da quando, in un viaggio a Ravenna rimase folgorato dai mosaici bizantini. Quel ricordo insieme a quello più intimo del padre orafo, lo portarono a dipingere d’oro ogni suo quadro.
Un colore irriproducibile a quei tempi, l’unico modo per ottenerlo era battere le monete d’oro sino a farle diventare impalpabili foglie nelle mani sapienti dei battilori che ne realizzavano cento da un solo ducato. Fogli così sottili ed eterei che venivano poi incollati con il miele o la colla d’albume.
La meraviglia davanti all’abbagliante luce che dal nulla prendeva vita non era esprimibile a parole, lo stesso Klimt, parlando del suo lavoro scrisse “Non valgo molto a parlare o a scrivere, tanto meno se devo esprimermi a proposito di me stesso o del mio lavoro. Alla sola idea di dover scrivere una semplice lettera l’angoscia mi attanaglia come il mal di mare...chi vuole sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che vale la pena di conoscere, osservi attentamente i miei dipinti per rintracciarvi chi sono e cosa voglio”.
L’oro ha brillato senza fine dalla notte dei secoli e per amplificarne lo scintillio veniva brunito. Cennino Cennini nel suo Trattato sulla pittura consigliava di usare l’ematite o zaffiri e smeraldi. Solo in questo modo l’oro diventava luce pure, abbagliante e ammaliante.
Simbolo di opulenza e potenza l’oro veniva inserito ovunque, anche nei tessuti broccati di dame e principi, partendo da nuclei di seta o lino avvolti nell’oro.
Ostentare la propria magnificenza con l’oro era una manifestazione di potere nelle corti europee, l’incontro tra i due monarchi più potenti d’Europa Enrico VIII d'Inghilterra e Francesco I di Francia si giocò proprio nel famoso campo del drappo d’oro. Una trattativa tra i due monarchi per sancire l’amicizia tra le due famiglie sugellata dal matrimonio dei rispettivi figli il delfino di Francia Francesco di Valois e Maria Tudor (che nonostante l’accordo non avvenne mai). Fu il re d’Inghilterra a vincere realizzando nelle campagne tra il castello di Ardres, francese, e quello di Guînes, inglese, un palazzo da 10mila metri quadrati con fontane da cui sgorgava vino rosso e un drappo che ricopriva l’intera struttura realizzato interamente in oro.
Aurea era l’aria intorno alle grandi corti. Divino nel suo non essere terreno, l’oro è mobile come gli elettroni che lo compongono che gli consentono di riflettere luce. Un sole nelle mani di chi lo maneggia. Tutti ne sono stati incantati, dalle mele d’oro del giardino delle esperidi dono di Era a Zeus a Giotto che ne fece largo uso nelle sue pale d’altare a Botticelli che intrecciò l’oro ai capelli di Venere.
Nei secoli l’amore per il metallo nobile si è trasformato in brama ed ossessione, come quella del re Mida che trasformava tutto in oro con il suo tocco, accecato dall’incandescenza della sua calda luce. Solo quando fu prossimo alla morte, senza nutrimento, implorò gli dei di togliergli quel potere.
Sempre in bilico tra la meraviglia pindariana de “L'oro brilla come fuoco che arde nella notte, supremo della ricchezza signorile” e la cupa bramosia denunciata da Shelley “L’oro è un dio vivente e governa, con disprezzo, tutte le cose terrene tranne la virtù”.
Riverberando la sua lucentezza nei secoli.