Nel marasma di inutili parole, la capacità di cogliere nel turbinio quelle che hanno un senso non solo un esercizio di stile, ma un’arte.
Ennio Flaiano in quest’arte era maestro. Sapeva predisporre le parole come tessere di un mosaico e realizzare così la frase perfetta.
Autobiografia del Blu di Prussia di Ennio Flaiano, pubblicato postumo, in prima edizione da Rizzoli a ottobre 1974, a cura di Cesare Garboli e ora in libreria con la ristampa di Adelphi racchiude una serie di racconti e apologhi dello scrittore premio Strega nel 1947 con Tempo di uccidere.
Scrittore, drammaturgo, giornalista, sceneggiatore, soprattutto con Fellini per La Dolce Vita, 8 e ½ La Strada Flaiano ha la capacità di scrivere di un colore.
Il blu, che contraddistingue la prima parte del libro, ne diventa l’io narrante “Mi conosco abbastanza. Se in un quadro i cattivi umori del pittore, le sue torbide malinconie, i suoi errori, le sue sfrenate ambizioni condensano e s’esprimono, state certi che là, in quel punto, troverete la mia ombra, l’ombra del Blu”.
Flaiano è un cesellatore, un condensatore, estrae il succo più puro. “Io muoio alla giornata, posso ben dirlo” scrive ironico e lapidario e rincarando la dose “Si muore d’indifferenza, o per non contrariare la maggioranza, la quale muore per abitudine”.
Flaiano induce il lettore a compiere un’attività ormai desueta: ascoltare, pensare, riflettere e magari poi sorridere. Innalza l’asticella dell’attenzione, va capito, come tutte le cose belle, come quando scrive “Cercò la Bibbia ma si ricordò poi di averla prestata a un ateo in procinto di perdere la sua fede”.
Dopotutto è lui che scrisse “La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia”.