Immagina un tempio, un luogo che riunisca popoli e culture differenti.
Rovescia la Torre di Babele per invertirne il senso e la chiama Taruggiz. Visualizza al contrario l’immagine e il nome di quel simbolo biblico di divisione, lo disegna e ridisegna per 700 volte, ci lavora per 15 anni consecutivi e poi quando la sua Taruggiz è perfetta la posiziona al centro di New York, nell’Upper East Side, tra la Fifth avenue e la 88th street e la rende una icona mondiale dell’arte moderna.
Nasce così il Guggenheim di New York, dall’immaginazione di tre visionari, una artista e baronessa tedesca, il più grande architetto di tutti i tempi e il filantropo più ricco d’America.
Era il 1959, ma la storia ha inizio molto prima. Nel 1927 quando la baronessa tedesca Hilla von Rebay decide di emigrare negli Stati Uniti. Nonostante il titolo nobiliare non ha soldi con sé e vive insegnando arte, pittura. Tra le sue allieve Louise Nevelson, ancora in bilico tra pittura e scultura. Dipinge quando ha tempo e tra un ripiego ed un altro espone le sue opere. Sono passati due anni dal suo arrivo a New York, quando Irene, moglie del ricchissimo Solomon Guggenheim acquista due sue tele, diventando l’inconsapevole artefice di un destino grandioso. Hilla conosce Solomon, lo ritrae in un suo quadro. Sulle pareti della casa di lei, lui nota i quadri di Rudolf Bauer e scocca così un’affinità elettiva tra i tre, lei diventa i suoi occhi e il suo gusto in tema di opere d’arte, ne compra a decine, le fa arrivare dall’Europa: Kandinsky, Delaunay, Léger, Bauer, tutti esponenti dell’arte non oggettiva, che lei in un suo libro definì così “un dipinto non-oggettivo non rappresenta nessun oggetto o soggetto conosciuto sulla faccia della terra. Non è nient’altro che un’armoniosa organizzazione di colori e forme che va apprezzato in sé, nella sua pura bellezza”.
Hilla accompagna Irene in Europa dove conosce Kandinsky, si innamora di Composizione 8, 1923, che da allora farà parte della collezione permanente del Museo Guggenheim. L’appartamento di Solomon al Plaza divenne troppo piccolo per contenere tutte le opere d’arte, nacque prima la fondazione, da lei curata e due anni dopo il Museum of Non-Objective Painting, in una ex concessionaria di automobili a Midtown Manhattan. Hilla continuava a comprare opere d’arte, ospitava gli artisti più importanti e in vista, voleva che quel museo fosse un faro che indicasse la via della bellezza, della conoscenza, dell’armonia e dello stupore. Tra le pareti di quello spazio artistico risuonavano sempre le note di Johann Sebastian Bach e Ludwig van Beethoven.
Dall’altro lato dell’oceano un’altra Guggenheim cercava di compiere un’impresa ugualmente grande, Peggy, nipote di Solomon che sceglie Venezia per il suo museo di arte contemporanea.
Ma Hilla immaginava qualcosa di più visionario, grande, trascendentale. L’arte per lei era la religione del futuro. Una volta disse “le nazioni sulla terra si rivolgeranno ad essa con pensieri e sentimenti e svilupperanno tali poteri intuitivi che li porteranno all’armonia”. Era fiamma ardente. Troppo grande per brillare indisturbata.
Bauer accecato dall’invidia la accusa di essere una spia nazista, spera intimamente di prendere il suo posto di curatrice, lei viene arrestata e confinata in casa. Si crea il vuoto intorno a lei, tutto viene risucchiato e polverizzato come in un incendio. Ma lei ha sempre quelle visioni davanti a lei e poi c’era Solomon a proteggerla.
Pensa a Frank Lloyd Wright, il più visionario di tutti e gli scrive “Ho bisogno di un combattente, un amante dello spazio, un creatore, uno sperimentatore e un uomo saggio - i tuoi tre libri, che sto leggendo ora, mi hanno dato la sensazione che nessun altro lo farebbe”.
Wright, immagina quel museo come la sua firma nel centro del mondo, e le risponde promettendole che avrebbe “reso l’edificio e il dipinto una sinfonia ininterrotta e bella come non è mai esistita nel mondo dell'arte prima”. Nel 1944 trovano il terreno sul quale realizzarlo, vicino al Metropolitan Museum of Art e Wright sprezzante dirà che una volta realizzato il suo museo, il Metropolitan assomiglierà ad “una baracca protestante”.
Stravolge le convenzioni e immagina per i visitatori e per gli artisti una esperienza mistica. Tutto bianco, abbagliante, si parte dall’alto e si discende in una spirale che scende per quattrocento metri. Al centro il grande lucernario che illumina di luce naturale il museo, disegna tagli continui dell’apertura a nastro lungo tutta la spirale per dare luce alle opere. La sua anti-Babele è pronta.
Proiettata nel futuro come lui l’aveva immaginata. Non tutti la amarono, fu provocatoriamente definita lavatrice.
Ma Hilla, la geniale artista che aveva immaginato tutto ciò non fu neanche invitata all’inaugurazione il 21 ottobre 1959.
Solomon era morto, la famiglia Guggenheim mise in un angolo quella donna forte, indipendente ed eclettica, costringendola nel 1952 a dimettersi da direttrice. Come fosse stata solo un’inciampo. Fu Wright a riconoscere il ruolo che lei ebbe in una lettera “Cara Hilla, mr. Guggenheim non avrebbe potuto trovare un curatore migliore e più fedele di lei. L’edificio è stato creato per lei e intorno a lei, che lei lo sappia o no. O che lui lo sappia o no”.