Bruciare, consumarsi, svuotarsi di sé e riempirsi di arte. Lasciare che l’onda si gonfi ed esploda con potenza. Ed esserne solo un tramite.
“Danzare significa permettere alla vita di usarti intensamente” diceva Martha Graham che sentiva suo quel “Nulla mi soddisfa” che lasciò scritto El Greco su una tela vuota prima di morire.
“Non si possono trascorrere le serate parlando con amici e compagni dei propri sogni, che resteranno tali - solo sogni. Non si tradurranno mai in una commedia, in un brano di musica, in un poema o in una danza. La conversazione è un privilegio a cui bisogna saper rinunciare”.
Vivere è un privilegio, l’arte fine a se stessa è l’unica vita che merita di essere vissuta. Non per tutti, ma per molti che scelgono la solitudine, il vuoto intorno a sé per creare.
“Trovo più gradevole la gente se posso stare sola per la maggior parte del tempo…un tempo questo mi preoccupava, perché preoccupava la mia famiglia. Ma alla fine ho realizzato che sono fatta così. Punto. Tutti hanno qualche stranezza e questa è la mia” disse Octavia Butler che chiudeva il mondo fuori dalla porta di casa.
E quel consumarsi, bruciarsi, sfinirsi era l’unica religione ammissibile per tanti di loro, come Grace Paley scrittrice e attivista politica che ripeteva “l’arte deriva da un costante tormento mentale. Da una fissazione” e definiva “pura negligenza” la sua capacità di eccellere nella scrittura e nella politica. Negligenza verso il resto del mondo, verso qualsiasi altro impegno.
E se questa dedizione - questo fuoco sacro li portava a immolarsi ad un’arte che era un bisogno di vivere respirandola - veniva contraccambiata, non tutti erano d’accordo “Siamo sempre, tragicamente soli, come spuma delle onde che si illude di essere sposa del mare e invece non ne è che concubina” scrisse sconfitto da quell’amore perduto Charles Baudelaire.
Dall’arte non si è amati, ma usati come un tramite, ne era convinto Marcel Duchamp che in un discorso sul processo creativo pronunciato a Houston nel 1957 disse “Apparentemente, l’artista agisce come un essere medianico che, dal labirinto al di là del tempo e dello spazio, cerca la sua strada verso uno spazio aperto. Quindi, se all’artista concediamo gli attributi di un medium, dovremo allora negargli, sul piano estetico, la facoltà di essere pienamente cosciente di quello che fa o del perché lo fa – tutte le decisioni da lui prese durante la realizzazione artistica dell’opera rimangono nell’ambito dell’intuizione e non possono essere tradotte in un’auto-analisi, sia essa condotta a voce, scritta o anche pensata”.
Non resta che credere in un miracolo senza forma né peso e come un credo ripetere le parole di George Bernard Shaw “Io credo in Michelangelo, Velasquez, e Rembrandt; nel potere del disegno, nel mistero del colore, nella redenzione di tutte le cose per mezzo della sempiterna bellezza, e al messaggio dell'Arte che ha reso quelle mani benedette”.