In ogni suo libro appare chiara la banalità del male e l’ineluttabilità di una sorte sbagliata che nasce dal nulla e si fa beffa di tutto.
Colson Whitehead scrittore e giornalista newyorkese indica chiaramente una via che è la strada che ogni afroamericano rischia di percorrere solo perché di origine africana. Nascere con il colore sbagliato della pelle, ancora oggi come ieri determina quello che sarai, a prescindere da ogni buona volontà di stare lontano dal male. I ragazzi della Nickel, edito da Mondadori e tradotto da Silvia Pareschi è l’ennesimo libro perfetto di Whitehead, che gli ha portato il suo secondo premio Pulitzer. Una scrittura semplice, non banale, ma chiara, per arrivare al maggior numero di persone. Ispirato alla vicenda della Dozier School for boys di Marianna in Florida venuta alla luce con tutti i suoi orrori grazie alle inchieste di Ben Montgomery sul Tampa Bay Times, narra le vicende di un gruppo di ragazzi rinchiusi alla Nickel Academy, una scuola-riformatorio dove si consuma il lato più oscuro del genere umano. “La capacità di sopportazione, Elwood, tutti i ragazzi della Nickel esistevano in quella capacità. Ci respiravano dentro, ci mangiavano dentro, ci sognavano dentro. Era questa la loro vita, adesso. Altrimenti non sarebbero sopravvissuti. I pestaggi, gli stupri, l’inesorabile svilimento di sé”.
Elwood Curtis, protagonista principale del libro, adolescente promettente con un futuro radioso dipinto nei suoi occhi che vede infrangersi per un puro, incomprensibile caso. Non esiste giustizia, non esiste umanità, men che meno la comprensione. Ma solo e sempre il male. “La cosa peggiore che fosse mai successa a Elwood gli succedeva ogni giorno: si svegliava in quella stanza”. Barack Obama l’ha definito “una lettura necessaria”, il Time definisce Colson Whitehead “uno dei più grandi scrittori americani viventi”.
Pur consapevoli della banalità del male in ogni sua forma e ad ogni latitudine, I ragazzi della Nickel è nel novero di quei libri inevitabili.