Una storia come tante, una famiglia, giochi, abitudini, gioie e dolori, e quel legame che resta indissolubile al di là del tempo e dello spazio.
L’unica differenza è che la famiglia di Natalia Ginzburg non è stata una famiglia come tante, ha attraversato la storia d’Italia scrivendola nel suo Lessico Famigliare, edito da Einaudi.
“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c'incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia…per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone … Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finchè saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti piú diversi della terra”. Scrisse lei descrivendo quel micro mondo che nasce e germoglia e rimane in vita anche al di fuori del terreno in cui è nato.
L’ha scritto in appena due mesi, tra ottobre e dicembre, di getto sorvolando venticinque anni. I Ginzburg e il mondo che gli gravitava intorno, da Cesare Pavese ad Adriano Olivetti, da Filippo Turati a Vittorio Foa e poi Giulio Einaudi, Anna Kuliscioff, Felice Balbo e naturalmente Leone Ginzburg.
Nel mezzo una guerra e tutto ciò che ha strappato via e poi il dopoguerra “un tempo in cui tutti pensavano d'essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s'immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c'erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l’idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio fra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme. Ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni; e si rivelò ancora situata di là dal vetro, e l'illusione di aver spezzato quel vetro si rivelò effimera”.