Nel 1981 viene pubblicato per la prima volta per Einaudi, Althénopis, il primo romanzo di Fabrizia Ramondino
che racconta la saga di una famiglia nello scorrere degli anni e dei luoghi. Althénopis su tutti, la sua Napoli, quell’occhio di vergine o di vecchia a seconda delle interpretazioni. Un’aurora dove tutto ha inizio, anche la storia della saga famigliare, fatta di molte donne grandi, belle, ingombranti. Dalla nonna che “apparteneva a un’epoca in cui si era riusciti a far coincidere l’eternità della storia con quella della vita”, alla madre, quasi invisibile, con pochi e alterni sprazzi di vita. Una continua ombra nella vita di una bambina che ha il sole dentro. Fabrizia Ramondino scrive tra le righe raccontando ogni piccola emozione umana, come quando durante una lezione a scuola una mosca si posa sul suo quaderno, lei traccia un cerchio e scrive “qui si è posata la mia vita”.
Delicato è il tocco della penna della Ramondino, uno dei tre lati del triangolo della letteratura italiana composto da lei, Elsa Morante e Anna Maria Ortese.
La penna scorre lasciando dietro di sé una scia di polvere magica che aleggia su tutto “I bambini ancora lattanti, i quali non paiono comunicare con i singoli individui e le singole cose, ma piuttosto con la loro aura che tutto unisce come un colorato miscuglio, e non discerne, ovunque diffusa e, per chi abbia superato quell’età, inafferrabile”.
Gli anni si susseguono attraverso le persone che li hanno popolati, le infinite zie, le sorelle della nonna. Un matriarcato che si ripete di casa in casa, di madre in figlia e che resiste anche quando la poesia soccombe sotto il peso degli affanni quotidiani “… come a chiederle ragione della sua vita. Non era, al di fuori delle Maniere, che affanno e un cuore aritmico”. La storia è solo un lontano rimando, un accenno quasi trascurabile. La vita è tra le quattro mura delle case che ha abitato e nelle campagne in cui ha giocato. Di questo libro a lungo dimenticato e ripubblicato sempre da Einaudi due anni fa, Natalia Ginzburg ne scrisse evidenziando quel flusso di attimi che lo contraddistingue “Quelle lunghe stagioni infantili, che parevano eterne ma sospese nella perenne attesa d’uno scompiglio, d’uno sgombero, d’una partenza, d’un prossimo esilio”.