Partiamo dal nonno, che aveva un cugino che si chiamava Marcello Mastroianni e arriviamo a lui, Bruno, stesso cognome del più celebre parente.
Stessa capacità oratoria, una voce nata per farsi ascoltare. Lui di professione è filosofo, ma anche scrittore, giornalista, social media manager e tutte le professioni che con le parole fanno girotondo. Lui alle parole chiede essenzialmente di fare spazio all’altro e quindi di ascoltare prima di parlare, di fare domande più che affermazioni e di riprendersi il tempo. “Siamo tutti un po’ vittima della sindrome Fomo, temiamo di non essere nel flusso, di esserci persi qualcosa nelle dinamiche di connessione nelle quali viviamo”. In realtà il rischio è quello di perdere noi stessi, per questo “continuo desiderio che abbiamo di riconoscimento, di farci capire, di dire la nostra”. E in tutto questo rifletterci costantemente in noi stessi, perdiamo lo sguardo davanti a noi, la propensione a vedere l’altro che diventa un inutile contorno. E se le parole a volte non ci sono d’aiuto, sono ridondanti, non sempre al loro posto, frettolose, lo sguardo arriva sempre al nocciolo della questione “le persone sono negli impliciti, nel non detto”. Capirsi a vicenda necessita di tempo, attenzione, di una espressa volontà di darsi all’altro. “Tutti ripetono costantemente che non abbiamo la visione d’insieme che siamo miopi, io piuttosto penso che siamo presbiti. Che non riusciamo a vedere nel piccolo, nel particolare, ogni singola persona, ma ci riferiamo ad una massa indistinta”.
Ed è nello spazio tra il credere di sapere tutto e vedere l’altro come se fosse già completamente a noi noto che si creano gli abomini della comunicazione. É lì, davanti a tutta quella arroganza e baldanza che come scrisse Rodari, “Tutto solo a mezza pagina lo piantarono in asso e il mondo continuò una riga più in basso”. Lui parlava di di un punto-e-a-capo, quello che poi, spesso, siamo noi.