Fu una battaglia a decidere il colore che hanno oggi. Una rivolta che aveva il sapore dell’indipendenza da un lungo dominio.
Per festeggiare Guglielmo d’Orange i contadini trasformarono la carota da viola, rossa, bianca e nera in arancione, colore simbolo della nazione.
Scelsero un tubero afgano, ci impiegarono anni, incrociarono i semi tra loro e alla fine con molta pazienza arrivarono al colore attuale. Un esuberante arancio.
Ma la natura sopravvive sempre e di viola se ne trovano ancora. Come la carota di Polignano, croccante, fresca e coriacea, cresce in una terra che sa di sabbia e di sale di mare, dove il vento spazza via tutte le nuvole, come i pensieri. Ai piedi di un ex abbazia che dal X secolo le guarda dall’alto crescere, fiorire, donare frutti a chi le raccoglie e poi semi alla terra per rinascere ancora.
Si mostrano a chi sa guardarle, restano nascoste nella terra che le abbraccia. Portarle via da quella stretta non è da tutti. Si lasciano prendere solo se con loro potrà venir via un po’ di terra. Per evitare il distacco emotivo della porpora che cade come pioggia.
Hanno solchi orizzontali come gli alberi, che ne raccontano la vita, una leggera peluria che quasi le fa sembrare trascurate. Ma è la cura che le ha rese quelle che sono, che le ha fatte sopravvivere a ibridazioni e tentativi di renderle più docili e inclini ai tempi del mercato. Guardano le cugine arancioni, figlie di un tributo, che ignare della storia che le accompagna spuntano ovunque, anche tra i denti di un coniglio.
Ma le viola, lente, nel caos degli stravolgimenti del tempo, restano uguali a se stesse. Hanno visto i romani marciare sul mondo, cosa sarà mai il capriccio di un uomo?