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Nel buio di un ascensore

Nel buio di un ascensore

Sì sono io, mi scatto una foto nello specchio della cabina dell’ascensore che si è fermato di colpo credo al terzo piano del condominio.

La fioca luce d’emergenza non illumina la pulsantiera. La torcia del telefonino inquadra il tasto con la campanella. Lo spingo più volte, so che chi mi aspetta in una frazione di secondo capirà che sono bloccata qua in una cabina capienza massima sei persone. Ci sono solo io, l’ossigeno a disposizione non dovrò condividerlo con qualcuno a cui potrebbe venire un attacco di panico e penso al vano scale senza finestre, al vano ascensore cemento armato. Meglio respirare, sento il mio nome, comunico che sono al terzo. Chi mi attendeva cerca i numeri da chiamare, i manutentori, lo leggo è qui in cabina. Il cellulare qui non prende, non potrei mai chiamare quel numero, penso, mentre il caldo terribile di questi primi giorni di agosto mi fa sudare la nuca. Avrebbero potuto installare un sistema di chiamata che allerti la centrale operativa direttamente da qui. Il numero è collegato ad un call center, “non riattaccare per non perdere la precedenza, altri utenti collegati prima”. A chi sta chiamando sale un po’ d’ansia, scende rapidamente le scale per cercare la tabella dei numeri utili affissa nell’atrio. L’amministratore è in ferie, non risponde. Il telefono è scarico, ho il cavetto e il powerbank, spengo la torcia, disattivo i dati, chiudo le app, risparmio energetico impostato. Posso scrivere, posso farmi un selfie, mentre aspetto. Tornano alla memoria le pagine delle cronache recenti di ascensori precipitati, quelle dei film, dei libri che ho letto, quelle delle cronache estive delle persone bloccate in ascensore per giorni nei palazzi vuoti. Qui i condòmini ci sono, li ho visti, dalle auto parcheggiate fuori so esattamente quale appartamento è occupato. Ecco mi concentro per distrarmi, 5 piano, 4 piano ripercorro le porte dei presenti. Torno a suonare l’allarme qualcuno uscirà pensa la parte buona di me, la parte cattiva già ride nel constatare quanto i condòmini non abbiano un senso di comunità. È la terza volta che resto bloccata in questo ascensore. La terza in 5 anni. La prima, pochi minuti, una breve interruzione della fornitura elettrica. La seconda 5 minuti, stessa modalità. Ne sono passati 8 e inizio ad aver caldo, sudo dietro la nuca. Respirare. Gab risale mi chiede come sto, intanto sul pianerottolo del terzo piano la giovane coppia, l’unica ad aver aperto la porta, si sincera dell’accaduto. E se si chiamassero i vigili del fuoco? La sostituta dell’amministratore insiste nel chiamare il call center. I vigili del fuoco invece arrivano in pochi minuti chiedono solo la cortesia che qualcuno aspetti giù e apra il portone, confideranno più tardi che in un analoga situazione in un altro palazzo della città nessuno aveva loro aperto per poter entrare.

20 minuti, fa caldo, respiro per dominare l’ansia, scrivo per distrarmi la cronaca che rivedrò domani e su un altro foglio note disposizioni, lasciti e legati. Scrivo un messaggio per quando il telefono tornerà attivo, per chi sa che lo riceverà.

Sento i vigili del fuoco battere sulla porta ad ogni piano, al terzo sentono la mia, pochi istanti e le porte si aprono, l’aria calda del vano scale sembra aria di montagna. Consegno i documenti, bevo l’acqua fresca che la coppia del terzo piano mi offre gentilmente. Vado a fare una doccia. Gab più in ansia di me, ha conservato la lucidità. Da ora solo scale.

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