Che anno sarà, sicuramente non sarà uno splendore dice il detrattore del bisestile. Un anno che inizia di lunedì, sciagura, affermano altri.
“Indovinami, indovino,/ tu che leggi nel destino:/ l’anno nuovo come sarà?/ Bello, brutto o metà e metà?/ Trovo stampato nei miei libroni/ che avrà di certo quattro stagioni,/ dodici mesi, ciascuno al suo posto,/ un carnevale e un ferragosto,/ e il giorno dopo il lunedì/sarà sempre un martedì./ Di più per ora scritto non trovo/ nel destino dell’anno nuovo:/ per il resto anche quest’anno/ sarà come gli uomini lo faranno” scriveva Gianni Rodari.
Già, che ogni anno porta con sé aspettative e desideri, ci si prepara un anno al primo dell’anno. “Lo distinguiamo dagli altri/ come se fosse un cavallino/ diverso da tutti i cavalli./ Gli adorniamo la fronte con un nastro,/ gli posiamo sul collo sonagli colorati,/ e a mezzanotte/ lo andiamo a ricevere/ come se fosse/ un esploratore che scende da una stella./ Come il pane assomiglia/ al pane di ieri,/ come un anello a tutti gli anelli…/ La terra accoglierà questo giorno/ dorato, grigio, celeste,/ lo dispiegherà in colline/ lo bagnerà con frecce/ di trasparente pioggia/ e poi lo avvolgerà/ nell’ombra./ Eppure/ piccola porta della speranza,/ nuovo giorno dell’anno,/ sebbene tu sia uguale agli altri/ come i pani/ a ogni altro pane,/ ci prepariamo a viverti in altro modo,/ ci prepariamo a mangiare, a fiorire,/ a sperare”, declamava Pablo Neruda in Ode al primo giorno dell’anno.
Pronti a far gli auguri ad amici e parenti, nemici e conoscenti. Il poeta russo Andrej Voznesenskij scrisse una poesia Augurio per l’Anno Nuovo all’amata. “Alla finestra cariatidi./ E nelle case tacchi. Ali/ a reazione/ di alberi/ sfondano i soffitti!/ Che meraviglie ci si profetizzano?/ Quale nuova sciarada/ in questa purità di conifere,/ in questi globi fiammanti?/ Oh, la ragazza col mandolino!/ Inebriando e rimbrottando,/ divampa come un mandarino/ la buccia del ciuffo rossiccio./ Prende a ruzzare come una scolata,/ rosicchia gli aghi dell’albero…/ Che vorrà,/ da che cosa sarà punta/ nell’anno successivo?/ Buffoneggia, si fa timida./ Alle finestre una nera neve./ E la portiera in bianco/ come un uomo selenico./ «Spegni dunque! Spegni!»/ L’amore è sempre/ vigilia./ Ha in sé/ l’Anno Nuovo/ dell’anima./ E l’irruenza dell’albero/ è come una donna nel buio –/ tutta nel futuro, tutta perle/ con gli aghi sulle labbra!”.
“So che si può vivere/ non esistendo,/ emersi da una quinta, da un fondale,/ da un fuori che non c’è se mai nessuno/ l’ha veduto./ So che si può esistere/ non vivendo,/ con radici strappate da ogni vento/ se anche non muove foglia e non un soffio increspa/ l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone./ So che non c’è magia /di filtro o d’infusione/ che possano spiegare come di te s’azzuffino/ dita e capelli, come il tuo riso esploda/ nel suo ringraziamento/ al minuscolo dio a cui ti affidi,/ d’ora in ora diverso, e ne diffidi./ So che mai ti sei posta/ il come – il dove – il perché,/ pigramente rassegnata al non importa,/ al non so quando o quanto, assorta in un oscuro/ germinale di larve e arborescenze./ So che quello che afferri,/ oggetto o mano, penna o portacenere,/ brucia e non se n’accorge,/ né te n’avvedi tu animale innocente/ inconsapevole/ di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra/ e una sostanza, un raggio che si oscura./ So che si può vivere/ nel fuochetto di paglia dell’emulazione/ senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato/ da Chi volle tu fossi … e se ne pentì./ Ora,/ uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti/ lo scheletro dell’albero di Natale,/ ti accompagna in sordina il mangianastri,/ torni indietro, allo specchio ti dispiaci,/ ti getti a terra, con lo straccio scrosti/ dal pavimento le orme degli intrusi./ Erano tanti e il più impresentabile/ di tutti perché gli altri almeno parlano,/ io, a bocca chiusa”. Il primo gennaio di Eugenio Montale è ritratto intimo familiare.