La piccola Dorothea viveva in una bella casa, c’era il prato, la staccionata bianca. Una tipica famiglia borghese, nella ridente Hoboken.
Tutto perfetto, almeno sino a quando compie 7 anni e si ammala di poliomielite. La malattia è devastante e lascerà per tutta la vita i segni del suo passaggio sulla sua gamba destra. Ma Dorothea non si è fatta sconfiggere dalla malattia, anzi. Da quella condizione ha imparato ad essere.
“Era la cosa più importante che mi è successa, e mi ha formato, guidato, istruito, aiutato e umiliato”, disse in seguito. Il destino è beffardo e a volte si accanisce più del dovuto. Quella famiglia perfetta si sgretola sotto i suoi piedi malfermi. Il padre avvocato non regge il peso di tanta realtà e fugge via, lasciando Dorothea a soli 12 anni. Ancora una volta non si dà per vinta, decide in quel momento di non volersi chiamare più Nutzhorn, cognome paterno, ma Lange, come la madre. In quel momento nasce Dorothea Lange, una delle più grandi fotografe documentariste di sempre.
“Sto cercando qui di dire qualcosa sui disprezzati, i vinti, gli alienati. Sulla morte e il disastro, sui feriti, gli storpi, gli indifesi, i senza radici, i dislocati. A proposito di finalità. Circa l’ultimo fosso”. spiegherà lei del suo lavoro.
E così ha fatto per tutta la sua vita. Ha puntato il suo obiettivo sugli ultimi, senza mai distoglierlo.
Lange lavorò per la Farm Security Administration (FSA) dal ’35 al ’39 per documentare le insostenibili condizioni di vita degli agricoltori migranti, costretti dalla povertà e da miopi politiche governative a spostarsi verso ovest come in un esodo. Soffocati e stremati dalle due devastazioni gemelle che misero in ginocchio l’America, la Grande Depressione e le tempeste di sabbia, le dust bowl che spazzarono via, desertificando, oltre 4 milioni di chilometri quadrati di terreno un tempo fertile.
L’11 marzo del 1936 sulle pagine del San Francisco News fu pubblicata la sua foto più nota Migrant Mother a corredo di un editoriale intitolato “Cosa significa il New Deal per questa madre e i suoi figli?”.
Nella foto, rigorosamente in bianco e nero c’è una madre, lo sguardo pensieroso e spento, due bambini che si aggrappano a lei. Quando scattò quella foto Lange era a Nipomo, a fine giornata decise di allontanarsi dalla strada principale e di raggiungere un campo di piselli. “Vidi e mi avvicinai a questa madre affamata e disperata, come attratta da una calamita”. Non c’era cibo per lei e per i suoi sette figli. Quel giorno cercò di vendere le ruote dell’auto del marito per comprare da mangiare. La Migrant Mother era una nativa americana, Florence Owen Thompson e quella foto fu scattata con l’inganno. Lange le promise di non pubblicarla, ma non rispettò la sua promessa.
Sbattete in faccia all’America la disperazione del suo popolo e il giorno dopo la pubblicazione di quello scatto la State Relief Administration consegnò razioni di cibo a 2.000 raccoglitori di frutta itineranti a Nipomo.
Dorothea Lange non si è mai tirata indietro quando si trattava di difendere gli oppressi, i diseredati, gli affamati, anche quando significava denunciare i limiti dell’osannato new deal roosveltiano.
Nel 1942 era su un nuovo versante. La War Relocation Authority le assegnò il compito di documentare l'internamento dei giapponesi americani. Subito dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbor uno spirito di odio invase gli Stati Uniti e fu perpetuata una evacuazione di massa dei giapponesi americani nei campi di detenzione.
Dorothea Lange si oppose a quella barbarie con l’unica arma che aveva a sua disposizione. Scattò centinaia di foto per testimoniare la disumanità di quanto stava accadendo, ma furono censurate dal governo americano sino alla fine della guerra.
Ma neanche questo ostacolo la fermò. Fu sempre convinta della funzione sociale della fotografia, della necessità di puntare l’obiettivo sull’umanità e per farlo entrava in punta di piedi nella vita delle persone. Il marito Paul S.Taylor disse “Il suo metodo di lavoro era spesso quello di avvicinarsi alle persone e guardarsi intorno, e poi quando vedeva qualcosa che voleva fotografare, prendeva in silenzio la sua macchina fotografica, guardava il soggetto e se vedeva che si opponeva, lei distoglieva l’obiettivo e non scattava più oppure aspettava finché non si fosse abituato a lei”.
Ed era in quella delicatezza, in quel suo raccontare con rispetto ogni singola vita, la grandezza della sua fotografia.
Nel 1940 fu la prima donna a ricevere una borsa di studio Guggenheim e sempre lei fu una delle co-fondatrici della più importante agenzia fotografica del mondo, la Magnum.
Nel 1952 scrisse un saggio a quattro mani con suo figlio nel quale denunciava la fotografia moderna troppo sedotta dallo spettacolo, dall’unico, dall’immaginifico.
“Era diventata più interessata all’illusione che alla realtà. Non riflette ma escogita. Vive in un mondo a parte … che il mondo familiare sia spesso insoddisfacente non può essere negato, ma non è, nonostante tutto, quello che dobbiamo abbandonare. Non abbiamo bisogno di lasciarci sedurre dall’evasione, non più di quanto dobbiamo lasciarci sgomentare dal silenzio … Per quanto sia brutto, il mondo è potenzialmente pieno di buone fotografie. Ma per essere buone, le fotografie devono essere piene del mondo”.