Prese la luce da Caravaggio, illuminando le forti eroine delle sue tele. Impastò i suoi colori creando un pigmento unico.
Fatto di coraggio, grazia, bellezza e indipendenza.
Artemisia Gentileschi è stata la prima donna ammessa all’Accademia del disegno di Firenze, la prima le cui opere furono ammirate, cercate e acquistate da monarchi e collezionisti. La sua tavolozza dei colori è l’immagine del suo carattere, nessuna sfumatura che indugi sull’ambiguità. Netta e decisa. Artemisia come i suoi colori. Arancione come l’abito di Corisca e il satiro. Giallo come l’abito in seta che lascia intravedere solo i piedi nudi nella Conversione della Maddalena. Verde brillante come l’abito scelto per il suo Autoritratto come allegoria della pittura, in cui lei dipinge, capelli raccolti, un po’ scomposti e il viso perso nell’estati artistica. L’azzurro che sembra un mare in Cleopatra, il rosso accecante de La Vergine e il Bambino con il rosario e il rosa tenero come un amore pur nella Madonna col bambino.
Artemisia voleva dipingere sin da bambina, sin da quando rimasta orfana di madre si avvicinò ancor di più a quel padre pittore, dal quale imparò a mescere i colori, a estrarre gli olii a preparare le tele.
Il suo talento era innegabile e prepotente, tanto da sfidare i costumi bigotti del Seicento che mai avrebbero consentito ad una donna di diventare una pittrice. Ha combattuto per la verità e per il suo onore contro chi doveva farle da guida e da mentore, ma fu solo un vile stupratore che la costrinse a combattere per se stessa, durante un processo in cui fu umiliata e sbeffeggiata, in cui fu anche sottoposta a tortura, per assicurarsi della veridicità delle sue parole. Che erano vere, a dispetto di tutti gli uomini presenti in aula. “Questo è l’anello che mi dai e queste sono le promesse” gridò al suo violentatore quando le strinsero con i lacci i pollici tirandogli sino a farli sanguinare. Questa era la tortura scelta per una pittrice. E lui, che si era nascosto in un primo momento nella vana promessa di un matrimonio riparatore, fu condannato, ma, naturalmente non scontò la sua pena. Fu lei ad andar via. Per fuggire alle voci, alle maldicenze. Il padre la fece sposare il giorno dopo la fine del processo e con il marito, un pittore senza fama e senza gloria, andò a Firenze, dove rifiorì. Fu accolta alla corte di Cosimo II dei Medici e il suo talento fu finalmente apprezzato. Era amica di Galileo Galilei e del nipote di Michelangelo. Riuscì a vivere in un clima culturalmente e artisticamente stimolante. Firenze riconobbe il suo valore e il 19 luglio del 1616, a 25 anni, fu ammessa all’Accademia del disegno.
Viaggiò molto, tornò a Roma, poi a Genova dove conobbe Rubens e Van Dick, poi ancora Venezia e infine Napoli che divenne la sua seconda patria. E fu proprio nella capitale partenopea che le furono commissionate le sue prime grandi opere da altare. Nella cattedrale di Pozzuoli dipinse San Gennaro nell'anfiteatro di Pozzuoli, l'Adorazione dei Magi e Santi Procolo e Nicea.
Ma i suoi soggetti principali erano quasi sempre le grandi eroine della Bibbia, che spesso avevano il suo volto. Una femminista ante litteram che raccontava a chi voleva vedere e ascoltare le storie di Giuditta, Ester, Giaele, Betsabea e Maddalena.
Il marito, inutile scialacquatore del patrimonio della moglie fu abbandonato al suo destino. Pensò lei ai quattro figli Giovanni Battista, Cristofano, Prudenzia e Lisabella e lavorò tanto da poter garantire una adeguata dote alle due figlie. Fu portata via dalla peste, che cancellò per secoli la sua memoria e le profetiche parole del padre che nel 1612 scrivendo alla granduchessa di Toscana disse della figlia allora 19enne “posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei”.