Un mosaico è fatto di tessere che si incastrano perfettamente l’una all’altra per creare un insieme. Una visione, un racconto, una poesia.
“Per me scrivere è sempre stato cogliere dal tessuto fitto e complesso della vita qualche immagine, dal rumore del mondo qualche nota e circondarla di silenzio” scrisse Lalla Romano Nei mari estremi e quel silenzio torna in tutta la sua scrittura. Fa sua la lezione di Proust imparata nella Recherche e inizia anche lei ad attraversare la vita, non semplicemente ricordando il passato, ma rendendolo vivo, creando una sorta di presente perenne. Partiva dai ricordi personali e poi si allargava a tutto il vissuto, in uno stile che lei definiva “scrittura della memoria”.
Nel farlo la ricerca di ogni parola era quasi maniacale. Non si accontentava di nulla che non fosse perfetto, in quel contesto. I suoi scritti sono zeppi di correzioni, annotazioni, cancellature e poi disegni, il suo primo amore.
Ancora ragazza fu incoraggiata da Lionello Venturi a iscriversi alla scuola di pittura, cosa che fece, parallelamente ai suoi studi in Lettere. Dipingeva, partecipava a mostre collettive e scriveva poesie. Il suo primo estimatore fu Eugenio Montale.
Lo incontrò nel 1940 al bar Roma di Forte dei Marmi, “era solo – disinteressatamente. Si stupì che l’avessi riconosciuto e s’informò sul mio paese; poi mi domandò se scrivevo e mi chiese di leggere qualcosa. Portai un mazzetto di fogli alla sua pensione; mi restituì le poesie con crocette in cima alle preferite e piccole osservazioni. Mi chiese anche se ne avevo delle altre, si poteva farne qualcosa; non ne approfittai: ero troppo contenta”. Quelle prime poesie furono il nucleo centrale di Fiore, la sua prima raccolta.
Einaudi si rifiutò di pubblicarla, ci pensò Frassinelli. Lei non si scompose, prese una copia del libro e la inviò a Giulio Einaudi con una dedica “A chi non ha voluto stampare questo libro”. Da quell’episodio divennero amici e Einaudi in seguito pubblicò tutti i suoi lavori.
Scriveva a mano, poi su macchina da scrivere e su ogni foglio conservato nel suo archivio si trovano tutti quei segni, annotazioni, anche disegni che la aiutavano a cercare i pensieri. Gli editori si disperavano per le sue continue revisioni, una, due, tre, quante necessarie a trovare le parole perfette.
“Prende valore la parola se è rara, se è circondata da silenzio. Non dev’essere una ripetizione o imitazione delle parole che si usano nel commercio della vita. Le parole che si usano per comporre una poesia o un’opera prendono un altro valore, sono come tasselli di un mosaico, che devono essere pochi, preziosi e necessari. Tra alcune parole deve crearsi un rapporto, in modo che ci sia un legame, che faccia di un’unità un’opera. Non è soltanto un tema, ma una connessione di immagini e parole che devono essere poche e devono essere circondate dallo spazio e dal silenzio”.
Il suo primo romanzo, Maria, viene accolto come un capolavoro da Contini e stroncato dall’amico Cesare Pavese, stanco a suo dire di leggere storie di donne di servizio. Ma gli amici, non sempre sono sostenitori. Come Mario Soldati, con cui ha condiviso gli anni della giovinezza, che a ogni suo scritto si sperticava di lodi, ma poi si assicurava che i giudici dei premi letterari non la votassero.
Nonostante la solerzia dell’amico, vinse il premio più ambito, lo Strega nel 1969 con il romanzo Le parole tra noi leggere, dove narra il suo rapporto con il figlio, analizzando e smontando ferocemente il legame tra i due. Un viaggio troppo intimo per il figlio Pietro che non le perdonò mai di averlo scritto. Scelse come titolo due versi di una poesia di Montale, il primo che aveva creduto il lei.
Viaggiava tra poesia e prosa, indistintamente. Si può scrivere di poesia in prosa e viceversa, ripeteva.
“Ho ereditato dai miei genitori una disposizione di amore verso la vita e verso gli altri e il disprezzo del fasto, della socialità, di tutte le cose vane”. Le parole stridono con il suo volto dai lineamenti severi, le linee serie che non si curvano mai in un sorriso, lo sguardo diretto sull’interlocutore. Mite. Apparentemente. Ma le parole svelano ciò che il viso nasconde.
“Se negli occhi mi guardi, non ascolto/le tue parole/altre parole dicono i tuoi occhi/anzi una sola/la più dolce, la sola che intendo/Ma pur la temo/
ché se poi taci, ancor chieggo parole” scrive in Amore, una delle sue prime poesie.
Compone odi alle stagioni, l’inverno “…La sola vera:/ l’altre, fiorite, un sogno”, la primavera “Noi ti avevamo invocata insofferenti delle nostre catene ma ai primi verdi emersi/ come isole di felicità dal fondo di un immemorabile oceano abbiamo avuto paura…”, l’autunno “…e i pingui soli d’autunno/ rigurgitano come forzieri/di gioie non possedute./Le stagioni come la musica/ propongono temi inesausti./ Sazi i giorni defunti/ lasciano un’eredità intatta/ che non possiamo dilapidare” e l’estate “…Dei papaveri fatui/già era acceso il delirio”.
Nel mezzo vive, ama due uomini, il marito che le diede il figlio e il compagno di tutto una vita. Partecipa giovanissima alla Resistenza, contagiata dall’entusiasmo e dal fervore culturale e politico che aveva generato Gramsci, diventa anche consigliera comunale per il partito comunista, ma si dimette subito “aliena assolutamente dall'occuparmi di questioni politiche, sociali, economiche: soltanto conservo la convinzione che sono da combattere le risorgenze fasciste”.
Scrive e disegna per tutta la vita, anche quando diventa cieca. Il compagno Antonio Ria le rilegge ogni giorno ciò che ha scritto. Muore nel 2001 nella sua casa milanese. Lasciando incompiuto Diario ultimo, che sarà pubblicato da Ria nel 2006, in occasione del centenario della sua nascita.
Restano di lei le parole, cesellate, dosate, calibrate. Sinanche nei suoi diari dove ancora giovane annotò profeticamente “noi nutriti di Omero più che di Bibbia”.