Mafalda sono io. Con le sue prese di posizione politiche contro la minestra.
Mafalda che legge il giornale e non permette a nessuno di farsi trattare da bambina. Mafalda che pensa, che crede, che argomenta e porta avanti le sue opinioni.
Quando da piccola leggevo le sue strisce volevo essere come lei. Mafalda che mi ha fatto capire quanto sia arguto chiamare Democrazia una tartaruga e che questa intelligenza e acutezza non ha età, spronandomi a essere più brava, più acuta, più attenta. Mafalda che non si è relegata in una stanza a pettinare le bambole, e con lei siamo andate tutte alla scoperta del mondo.
Mi ha insegnato a non essere mai sciocca, rivendicando tutta l’importanza dei miei 6 anni. Mafalda che non si fa blandire né sminuire. Entra in una ferramenta chiedendo una chiave per la felicità e come se questo non fosse abbastanza, definisce arguto il ferramentista che le chiede di darle il modello.
Io sono Mafalda quando come lei mi interrogo sul perché di grandi uomini non ce ne sono più. Quando con i nastrini tra i capelli, proprio come avrebbe fatto lei, impacchettai gli avanzi del pranzo che non volevo per spedirlo ai “bambini che in Africa non hanno da mangiare”. Per lei era la minestra, per me i carciofi. Ma è lei ad avermi dato l’esempio. Mi ha insegnato a prendermi sul serio, mantenendo sempre una certa dose di ironia.
Ho trovato anche io il mio Felipe con cui parlare del mondo e ho imparato a voler bene al mio Manolito, a sentirlo amico anche se così diverso da me. Non avevo Libertà, ma quanto l’ho cercata. Così chiara e disincatata, così vera e assoluta. Che fosse uno scricciolo neanche si notava, tanto grande era la sua mente.
E non voglio neanche pensarci che la tua mano Quino, che la disegnavi, non c’è più, perché questo vorrebbe dire che non sentirò dire cose come: “E tirar fuori qualche volta l’intelligenza, come le gambe, per sgranchirla?”.