“La luce può fare tutto. Le ombre lavorano per me. Io faccio le ombre. Io faccio la luce. Io posso creare tutto con la mia macchina fotografica”.
La grandeur del primo fotografo surrealista della storia è racchiusa in queste poche parole. Man Ray manipolava il mondo, il visibile e l’invisibile e lo plasmava a suo gusto. Le fotografie diventano scorci di un’anima inquieta, dove tutto è passione, emozione, desiderio. Il collo di Lee Miller, promontorio da scalare, la schiena di Kiki de Montparnasse violino per lui, violoncello per lei.
La mostra La révolution du regard di Man Ray è uno scorcio sull’opera di uno dei più grandi fotografi del Novecento. Dopo di lui, in molti hanno tratto ispirazione, seguendo il solco tracciato dal fotografo visionario, apparendo avanguardistici agli smemorati.
“La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. La credo atta ad alimentare, indefinitamente, l’antico fanatismo umano. Risponde senza dubbio alla mia sola aspirazione legittima. Tra le tante disgrazie di cui siamo eredi, bisogna riconoscere che ci è lasciata la MASSIMA LIBERTA’ dello spirito. Sta a noi non farne cattivo uso. Ridurre l’immaginazione in schiavitù, fosse anche a costo di ciò che viene chiamato sommariamente felicità, è sottrarsi a quel tanto di giustizia suprema che possiamo trovare in fondo a noi stessi” scriveva André Breton nel primo manifesto surrealista di cui Man Ray sarà uno dei primi firmatari. Cercherà nella sperimentazione la sua via, liberando l’immaginazione da ogni gabbia creativa. Rayografie, solarizzazioni, sovrapposizioni. Ridefinire i canoni in un moto perpetuo di cui Man Ray non stabilirà mai i confini.
Nel castello Carlo V di Monopoli all’interno del Phest, festival internazionale di fotografia e arte, sarà possibile ammirare alcune fotografie e un filmato dell’epoca che restituisce il sapore di quella vita libera e dissoluta, dove solo l’arte era assoluta e inviolabile. Il resto un superfluo contorno da assaporare senza prestarci troppa attenzione.
Trovò l’unico modo di definirsi prima di morire, scrivendo il suo epitaffio “Non curante, ma non indifferente”.