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Di te io canto, Richard Sharum

Di te io canto, Richard Sharum

This is America canta Childish Gambino anni dopo le pagine di furore e rabbia di Faulkner e Steinbeck.

Nulla è cambiato tra quelle strade infinite che non portano al sogno America ma alla perdita dell’innocenza. Quando si credeva in un sogno e che quel sogno potesse avverarsi. Non è così in questa America da 6.000 ragazzi senzatetto nella sola Dallas e di questi 4500 frequentano la scuola pubblica, unica via per rimanere a galla, per non soccombere, per salvarsi in una società che resta ferma e li guarda annegare.

Richard Sharum è un fotografo e documentarista che ama l’America e proprio per questo ne vede tutti i limiti, tutto ciò che la sminuisce, la impoverisce. È lì che ferma l’attimo, scatta una immagine per mostrare al mondo il cosa e indurre chi guarda cercare il perché.

Of thee I sing – An american series è un lavoro composito che abbraccia tre percorsi il primo Spine America, il secondo American Homicide e il terzo American Avenue. I non luoghi, la perdita dell’innocenza e la capacità di mettersi nei panni dell’altro per comprendere.

"Spero che questo lavoro funga da appello all'azione per gli individui convinti di non avere alcun potere rispetto alle forze che si oppongono attivamente a questo tipo di coesione nazionale. L'amore (incondizionato) si è dimostrato infinite volte una forza potente; richiede solo senso del dovere un'azione adeguata, e la volontà di intraprenderla".

Di te io canto, sono le fotografie potenti di un fotografo che non si nasconde, racconta le infinite sfaccettature di un mondo fatto anche di orrori. Le sue immagini rivelano il bisogno di rintracciare i legami emotivi che ci accomunano per trascendere tutte le questioni di razza, lingua, nazionalità, economia e potere. Ritiene che, in quanto specie sociale, abbiamo bisogno di questo senso di comunità. Laddove la tecnologia e i social media promettevano un mondo più interconnesso, gli Stati Uniti hanno invece visto aumentare negli ultimi vent'anni i tassi più alti di isolamento personale, solitudine, tribalismo, suicidio e omicidio.

Non è l’abuso di droghe e alcool che relega i ragazzi sui marciapiedi delle strade americane, ma la difficoltà di sopravvivere in una società in cui il salario minimo federale per il lavoro negli Stati Uniti è di 7,25 dollari l’ora e non aumenta dal 2009, mentre i costi della vita, dell’alloggio e dell’assistenza sanitaria sono aumentati in modo sproporzionato. La gran parte dei ragazzi senzatetto provengono da famiglie monoparentali che da sole non ce la fanno. Non c’è un orco da mandare al rogo, il sistema li ha semplicemente piegati, nel silenzio di tutto.

La volontà di raccontare i singoli individui come un nemico non trova spazio, lui scava e individua tutte le falle di colpevolezza, mette in luce la volontà di resistere. Il bianco e nero delle foto non costringe i suoi racconti in un recinto, Sharum restituisce un caledoscopio di emozioni, di pensieri, di storie, di “..e se”.

Anche quando fotografa i carcerati responsabili di omicidio lo fa interessandosi al quadro generale, non si limita a puntare il dito, anzi non lo fa mai, ma scava e racconta e mostra come questi omicidi si ripercuotono cumulativamente su di noi come società. Va oltre ciò che tutti si fermano a guardare. Non cerca un nemico da odiare, ma le ragioni che rendono tutto ciò possibile.

 

La mostra di Richard Sharum è visitabile al Phest di Monopoli sino al 3 novembre.

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