Il gioco è lo specchio della società, in tutti i suoi contesti. Due o più giocatori, delle regole predeterminate accettate dalle parti,
l’agonismo, la voglia di vincere.
Il limite tra il gioco e la sua grottesca esasperazione che ne trasfigura i connotati è sottile e si sta assottigliando sempre più. Lo spiega bene Stefano Bartezzaghi, docente di Semiotica e di Teorie della Creatività.
“Nel tennis il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C'è sempre e solo l'io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall'altro lato della rete: lui non è il nemico; è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l'occasione per incontrare l'io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l'io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro al gioco: fai breccia nei tuoi limiti; trascendi; migliora; vinci. […] Si cerca di sconfiggere e trascendere quell'io limitato i cui limiti stessi rendono il gioco possibile. È tragico e triste e caotico e delizioso. E tutta la vita è così, come cittadini dello Stato umano: i limiti che ci animano sono dentro di noi, devono essere uccisi e compianti, all'infinito” scriveva David Foster Wallace in Infinite Jest e la sua metafora viene richiamata da Bartezzaghi – nel suo libro Chi vince non sa cosa si perde - per spiegare il gioco e la società in cui viviamo.
Il gioco nei limiti del suo essere sano è un luogo dove non esiste concettualmente sconfitta “Io o vinco o imparo” diceva Nelson Mandela.
Ma quando si perde il senso del gioco, quando il terreno di gioco si smaterializza, vengono meno i confini, allora si smette di imparare e si gioca solo per vincere e quando si perde si viene relegati nell’angolo dei perdenti. Nulla ha più senso, tranne l’irreale sensazione di essere campioni sulla vetta del mondo.
Simone Weil nel suo studio sul potere parlando della guerra, che è un gioco spogliato della sua funzione originale e delle sue regole, dice che a un certo punto non si combatte più per l’oggetto del contendere ma per distruggere l’avversario. In queste forme di competizione estrema che hanno eroso le cornici dell’agos, ristagna la società in cui viviamo, male.
La domanda è quindi una e solo una: se la competizione viene spinta oltre ogni limite, dove non esistono più regole, né confini del campo di gioco, cosa può succedere?
Tutto.
Abbiamo ascoltato le parole di Stefano Bartezzaghi a Lecce al convento degli Agostiniani durante la decima edizione del festival Io non l’ho interrotta.