Nasce nell’alta borghesia cubana, la rivoluzione la porterà negli Stati Uniti con l’operazione Peter Pan. Il senso di sradicamento, di non appartenere a nessun luogo la accompagnerà per tutta la vita.
“I miei lavori sono vene di scorrimento di fluido universale. Attraverso di loro si ascende a un sapere ancestrale, a credenze originarie, accumuli primordiali, ai saperi inconsapevoli che animano il mondo” dirà Ana Mendieta madre di un’arte che fonde terra, saperi ancestrali, divinità pagane.
Sovverte le regole, la sua arte trascende la sua persona. Crea simulacri di se stessa, utilizzando fiori, foglie, fango.
“La mia arte è fondata sulla convinzione di un’energia universale che attraversa ogni cosa: dall’insetto all'uomo, dall'uomo allo spettro, dallo spettro alla pianta, dalla pianta alla galassia. Le mie opere sono le vene d'irrigazione di questo fluido universale. Attraverso di essi ascendono la linfa ancestrale, le credenze originarie, le accumulazioni primordiali, i pensieri inconsci che animano il mondo”.
Nel 1938 è a Roma, vincitrice del Roma Price che la porta a vivere due anni in una residenza artistica a Trastevere con il marito artista Carl Andre.
Lì conosce e collabora con gli artisti della scena romana Nunzio Di Stefano, Pasquale Liberatore, Fabio Sargentini.
Nelle sue opere affronta si interroga sull’identità, la femminilità, la violenza, la vita e la morte. I grandi interrogativi dell’esistenza umana animano la sua arte.
La sua opera più famosa è stata un lungo divenire, la Serie Siluetas, dodici anni e infinite rappresentazioni. Cerca il sacro, si scotta con il fuoco, trova le origini sporcandosi di terra, si unisce alla natura immergendosi nell’acqua. Gli elementi diventano parte di sé. “Ho portato avanti un dialogo tra il paesaggio e il corpo femminile (basato sulla mia stessa silhouette). Sono sopraffatta dalla sensazione di essere stata estratta dal grembo materno (la natura). Attraverso le mie sculture terra/corpo divento tutt'uno con la terra, divento un'estensione della natura e la natura diventa un'estensione del mio corpo”.
Dopo i due anni romani torna a New York nell’estate nel 1985 dove muore cadendo dalle scale, forse spinta da suo marito, processato e assolto.
Lascia a tutte le artiste venute dopo di lei una cosmica appartenenza al tutto, il farsi arte, il processo incompiuto dell’essere.