Il tempo corre inesorabile e si deforma, l’orologio che ne scandisce il passo si ripiega su se stesso nel vano tentativo di stargli accanto.
Il tempo fugge e Salvador Dalì modella il bronzo a cera persa per rendere tangibile quella fuggibilità in Danza del tempo II, una tra mille delle sue opere in cui ripropone l’orologio molle, nel tentativo di piegare il tempo alla sua volontà. Lo modella a sua immagine, trasformando i suoi sogni in realtà. Dipinge e modella Alice nel Paese delle meraviglie, nell’atto di saltare la corda. In testa una corona di rose e accanto a lei, uno dei simboli daliani, la stampella, un punto fermo al quale ancorarsi.
In un continuo rimando tra conscio e inconscio, tra realtà e fantasia, Dal rompe ogni schema e ci mostra ciò che solo con i suoi occhi è possibile vedere. Nella serie di cinque litografie Anamorphosis: Arlequin, Chevalier aux papillon, Le grane, Lys e Nu è possibile scorgere due soggetti, il primo che appare chiaro alla vista e il secondo che compare solo che riflesso in uno specchio cilindrico di 3 pollici di diametro, posto in un punto preciso. L’anamorfosi cilindrica di Dalì abitua gli occhi a guardare oltre lo specchio e scorgere quel mondo meraviglioso che attende di essere scoperto.
“Dalì è il padre del surrealismo, il suo tratto distintivo è nell’inconscio freudiano che lui riesce a trasmettere con le sue opere” spiega Antonio Lagioia fondatore e direttore artistico della SanGiorgio Arte che ospita, sino al 18 febbraio, a Bari nella sede di via Sparano, la mostra Dalì - Il pensiero surrealista. Una mostra volutamente gratuita per consentire a tutti di poter ammirare l’estro e il genio dell’artista catalano che in gioventù rinnegò la fede cristiana impostagli dalla famiglia, ma che riavvicinò a sé, incuriosito, da adulto. “Non c’è nulla di più stimolante dell’idea di un angelo” disse l’artista che nel suo Angelo del trionfo, avvicina terra e cielo con una tromba d’oro, suonata da un cherubino ad ali spiegate. Studia e analizza il mondo intorno a sé, la natura diventa un popolo danzante in Flordali, in cui parte da incisioni botaniche del XIX secolo per trasformarle in magiche figure che prendono vita. I fiori danzano, le piante corrono, la frutta trafitta gocciola sangue. Tutto è vita. Il cerchio si chiude, le sale bianche immacolate come fogli su cui raccontare una favola. C’era una volta un elefante dalle lunghissime e magre zampe con cui raggiungere il cielo, la proboscide in alto, come insegna la tradizione africana, nessun peso da portare, su di lui, come lui, in trionfo un angelo e la sua tromba, entrambi suonano il trionfo.
Un’apoteosi daliniana che nasce da uno dei suoi più intimi pensieri “l’unica cosa di cui il mondo non avrà mai abbastanza è l’esagerazione”.