Era ancora bruma mattutina che dissolve contorni l’anelito di infinito che riposava in lui. Era appena un respiro quando a 34 anni raggiunse Napoli.
Fu chiamato da Gianmatteo D’Aversa, generale degli Olivetani, congregazione benedettina, che a Napoli reggeva quello che ora è conosciuto come il monastero di Sant’Anna dei Lombardi nell’autunno del 1544.
Il palazzo degli Uffizi e gli affreschi della cupola del Brunelleschi sarebbero venuti in seguito. A Napoli Giorgio Vasari avrebbe dovuto affrescare il refettorio dei padri olivetani, poi diventato sagrestia, ma ben presto si pentì di aver accettato il lavoro. Troppo basse le volte, troppo buia la stanza. Non c’era nulla di quella modernità che lui cercava e ricreava. Fu convinto a restare e dal suo ingegno di pittore sì, ma anche di architetto iniziò a risagonare il tetto, a limare le volte, a stuccare l’intero refettorio, aiutato dalla pietra di tufo che facilmente si modellava sotto le sue mani. Dipinse tutto di un bianco accecante e così portò la luce. La sua luce. Realizzò un ciclo pittorico in tre campate, realizzò una volta celeste con tutte le 48 costellazioni che Tolomeo tracciò nel suo Almagesto. Le alternò con le otto virtù. Dedicò le tre volta alla religione, all’eternità e alla fede. Ispirandosi, nel compimento dell’opera intera alla Cappella Sistina di Michelangelo. Aiutato nei lavori da Raffaellino del Colle, allievo di Raffaello, e da Stefano Veltroni, suo cugino.
Realizzò il suo capolavoro che è stupore e incanto.
Con la geometria perfetta di ottagoni, triangoli, rettangoli, cerchi e ovali, misura spazi che altrimenti sarebbero infiniti. Il bianco cede il passo all’oro e al blu che delimitano la bellezza sconfinata delle immagini del Vasari.
E le volte, quelle stesse volte che lui inizialmente definì opprimenti innalzano al cielo lo sguardo ben oltre il limite della pietra. Perdersi per poi ritrovarsi nella perfezione di ogni singolo tassello.
La cura, la bellezza, la poesia, la luce. Un respiro più ampio, un’aria più fresca, tutto un continuo rimando nel tentativo vano di contenere l’incontenibile, il vaso trabocca, non sono i mali del mondo, ma tutto ciò che di bello e puro e grande è possibile immaginare.
La speranza, in questo vaso non attende, trabocca e avvolge tutto. Gli occhi di chi steso sul freddo pavimento in marmo osserva il cielo del Vasari, non riescono a chiudersi, osservano ogni immagine, nel tentativo anch’esso vano di essere in grado un giorno di raccontare quanto visto. Di aver parole per descrivere l’ombra di Dio sull’universo.