C’è un prima e un dopo Andy Warhol nell’arte.
Un primo quando l’arte era sacra, irripetibile, al più imitabile e un dopo, quando l’arte diventa un bene di consumo capace di entrare nelle case di chiunque. O quasi.
Tutti vogliono essere in cima cantava il folletto sui tacchi a spillo e per arrivarci c’è bisogno di un po’ di pop, rivelava furbescamente. Lo sapeva lui, come gli artisti degli anni Ottanta e Novanta che hanno reso popolare qualsiasi ora. Eliminando l’aura sacra che innalzava ad altezze irraggiungibili la speranza in una vita migliore.
Warhol più di chiunque altro ha ridotto quel divario, percorrendo i chilometri tra la terra fatta di sofferenze, incomprensioni, povertà, stenti e quel paradiso in terra che ha disegnato a sua immagine e somiglianza. L’ha tinteggiato di colori sgargianti, l’ha decontestualizzato rendendolo un lecca-lecca alla portata di ogni bambino. Ha nascosto sotto il tappeto la polvere e ha fatto brillare tutto il resto. Ha preso Marilyn e l’ha moltiplicata all’infinito con i suoi occhi socchiusi, le labbra dischiuse, quell’immagine languida che dal bianco e nero si è caleidoscopicamente trasformata in un arcobaleno, percorso da Warhol in sella ad un unicorno rosa.
Mildred Scheen (pioniera nello studio del cancro al seno, all’utero e alla prostata) con lo sguardo severo e i capelli mossi dal vento guarda un punto indefinito, un giovanissimo Miguel Bosè ripetuto in serie e le sue celebri mucche, nate per una scommessa con una gallerista che lo sfidò a farne un’opera d’arte. Warhol è una catena di montaggio capace di replicare all’infinito il momento in cui un’immagine diventa un’opera.
Ha sempre voluto celare l’intimità della sua vita privata, mettendo sotto i riflettori del mondo intero la vita pubblica. Colorata, esagerata, sua e di nessun altro. Perché tutto era replicabile per lui, tranne se stesso.
Trentatré opere dell’artista di Pittsburgh sono in mostra a Monopoli al castello Carlo V sino al 31 agosto. Pop Art identities, un viaggio per scoprirle tutte, tranne la sua.