La fotografia per lui è denuncia delle vite mutilate degli ultimi della terra, quelli per cui non ci sarà salvezza né liberazione.
Scatta su pellicola in bianco e nero con una fotocamera da 35 mm, per lo più Leica, a volte Pentax. Sbianca le sue immagini per eliminare le ombre, e con loro ogni possibile velo alle sue denunce. Sebastião Salgado con uno zaino in spalla è stato in Africa, per testimoniare la siccità nel Sahel, poi si è immerso in uno dei più grandi orrori dell’umanità, “quello che ho visto durante il genocidio in Rwanda mi ha fatto perdere la fede nell’uomo e nel mondo” disse al suo ritorno. Ha cercato le origini della vita, ridando vigore alla terra deturpata e distrutta dall’uomo.
Ciò che gli occhi vedono la parola non può negare. Negli anni Sessanta con sua moglie Leila, dopo il colpo di Stato del maresciallo Castelo Branco, sposò la causa marxista e aderì all’Azione Popolare. Il governo brasiliano li privò, senza neanche informarli, del passaporto. Vissero come esuli per circa 15 anni. Cresceva in lui il bisogno di tornare a casa “avevo un bisogno enorme di sentirmi vicino al Brasile, in un periodo in cui mi era vietato soggiornarvi”.
Nessuno ha potuto oscurare la forza delle sue immagini. Neanche il regime.
“Sognavo quel continente incantato, la sua fantasia ereditata da una terra di storie incredibili e lasciavo correre l’immaginazione attraverso le immense montagne verdi, rosso sangue, nei toni splendenti che compongono i bastioni dell’Altiplano”.
Con i suoi scatti ha reso indimenticabile ciò che la cultura del consumo ha voluto cancellare, le popolazioni dell’America Latina, “estremamente ferite dalla distruzione della loro cultura indigena ad opera degli spagnoli”. È stato in Ecuador, in Perù, in Brasile, in Cile, Bolivia, Guatemala, Messico. Sette anni o secoli come li definì lui “perché tornavo indietro nel tempo. Alla velocità lenta e densa che caratterizza il passaggio di tutte le ere in quella regione del mondo”
Forti e intensi i suoi scatti sono una ferita aperta nella storia dell’uomo.
I binari della ferrovia accanto ad un lago in Perù, un bambino e una figura nera al suo fianco, i cieli sterminati, le nuvole che sanno di infinito, la luce chiara, intensa, che brucia l’anima di chi guarda il destino segnato di innocenti scalzi sulla terra brulla. Fotografa i volti segnati, quei volti che ha imparato a guardare dopo la nascita del suo secondo figlio Rodrigo, nato con la sindrome di Down, “lui mi ha spinto a guardare i visi in un altro modo, ad avvicinarmi agli esseri in maniera diversa”.
Scatta centinaia di immagini, tutte su pellicola per avere maggiore nitidezza. La grazia si posa tra le costole di bambini che giocano con un cumulo di ossa, i piedi stanchi di chi non ha un luogo in cui riposare, la crudeltà di una vita che ha il sapore del sacrificio, del dolore e della fame. “Armato di tutto un arsenale di chimere, decisi di tuffarmi nel cuore di quell’universo irreale, di queste Americhe Latine così misteriose, sofferenti, eroiche e piene di nobiltà. Alla velocità lenta e densa che caratterizza il passaggio di tutte le ere in quella regione del mondo, assistevo al susseguirsi di un flusso di culture differenti e al tempo stesso simili nelle loro credenze, dolori e scherzi del destino”.
Salgado ha raccolto quei sette anni, dal 1977 al 1984, in un libro Altre Americhe, per la prima volta in mostra in Italia al castello aragonese di Otranto sino al 2 novembre.