Carta da zucchero a richiamare il cielo tenero di un pomeriggio di primavera e l’infinita luce che irrompe della sala grande ricolma di libri.
Nella casa studio di Luigi Pirandello a Roma, in via Antonio Boscio rivive lo scrittore siciliano. A chi è uno, nessuno e centomila, non basta una scrivania, ce ne sono due. Quella su cui nel 1921 scrisse Sei personaggi in cerca d’autore e la seconda, dove ancora oggi ci sono il calamaio, gli inchiostri, nero e rosso, i doni dei suoi amici. E quelle tende azzurre mosse dal vento, il profumo degli alberi del giardino su cui la villa fu costruita negli anni Dieci del Novecento. Lauri e cipressi come scrisse Corrado Alvaro descrivendo l’abitazione “oltre a questo verde perenne e grave, che appena imbiondiva al sole di primavera, ci doveva essere qualche grande albero che perdeva le foglie, un platano o una magnolia; ricordo bene a certe stagioni quel fruscìo … È strano che questo fruscìo faccia parte dei miei ricordi su quello studio, e questo sfogliare sia trasferito in un parco anziché fra le carte del letterato”.
Lo studio immenso che da solo è quasi tutta la casa, cento metri quadri di libri, oltre duemila, adornato dai quadri dipinti dal figlio Fausto, dalle foto della sua musa ispiratrice, l’attrice Marta Abbe, dai doni di Gabriele D’Annunzio, un fermacarte in marmo e ottone con un cervo inciso sopra e un portasigarette in argento, realizzato da Bucellati, con il motto del vate d’Italia Memento audere semper. Tra le due scrivanie, piccolo, quasi nascosto, il tavolinetto nero con la Underwood del 1933, quella su cui scrisse per ventisette volte consecutive “Pagliacciate” davanti ai giornalisti e ai fotografi giunti sin lì per immortalare il drammaturgo dopo la notizia del conferimento del premio Nobel.
Prima di lui quella casa era l’atelier degli amici pittori Pasquarosa Marcelli e Nino Bertoletti. Poi arrivò lui, ci visse per tre anni sino alla morte e nel piccolo letto dal copriletto rosso a ridosso della parete grigio-argento, negli ultimi attimi di vita dettò a voce al figlio Stefano le sue ultime parole de I Giganti della montagna.
La camera da letto piccola, stretta, essenziale. Il cuore della casa è il salone, quello delle maschere e dei volti, con i suoi libri, con i ritratti dei suoi amici, del padre, delle nipotine e poi le finestre dalle quali far entrare il mondo e il grande terrazzo.
I piedi calpestavano leggeri le cementine bianche, nere e rosse a scacchi in un gioco di attacchi e difese, di arroccamenti e matti.
“Il mio studio è tra i giardini, cinque grandi finestre da una parte e due dall’altra, quelle più larghe ad arco, queste ausciale sul lago di sole di un magnifico terrazzo a mezzogiorno e a tutte e cinque un palpito continuo di tende azzurre di seta, ma l’aria dentro è verde per il riflesso degli alberi che vi sorgono davanti” scrisse lui per descrivere il cuore della sua casa romana. Sui divani bianchi incontrava gli amici, Eduardo De Filippo e Silvio D’Amico, sempre con le finestre aperte a sentire gli alberi e le foglie. Che non erano maschere, ma volti.